venerdì 28 dicembre 2012

John Talabot - ƒin

John Talabot, ƒin,
Permanent Vacation, 2012
Parecchi anni fa ebbi per la prima volta un'articolata conversazione che si potrebbe riassumere in due punti: i dj non sono musicisti e i dj sono musicisti. Non ricordo quale delle due posizioni sostenessi, può anche darsi che per amor di polemica mi sono trovato ad argomentare a favore di una tesi e allo stesso tempo appoggiare segretamente l'altra, sta di fatto che in seguito mi è capitato di ripetere il copione con svariati interlocutori interpretando ora un ruolo ora l'altro. Il problema è che ci sono buone ragioni per entrambi gli argomenti, perché se è vero che dj e producers fanno musica, soddisfacendo in questo modo la naturale definizione di musicista, è anche comprensibile lo storcimento di naso di alcuni puristi di fronte a tale affermazione dato che la principale occupazione di un dj è quella di creare sample sonori, modificarli e mixarli, rendendo la propria attività più affine a quella dell'ingegnere musicale.

Ascolto John Talabot e mentre i suoi loop profondi e cupi mi scorrono nelle orecchie ripenso distrattamente alla questione riguardo la legittimità che un dj abbia o meno di fregiarsi dell'élitario titolo di musicista e mi accorgo dell'inutilità della cosa, dato che un dj ha tutte le carte in regola per elevarsi al rango di artista. A che importa se nessuno strumento vero compare nel disco, se il canto è sostituito da lamenti e campionamenti, se all'armonia e alla melodia viene preferito il suono e la sua evocazione? Finalmente liberati dall'oneroso compito di far danzare i presenti in sala, i dj possono oggi utilizzare la propria scienza per allargare gli orizzonti della musica, sviluppando e offrendo un suono nuovo, artificiale quanto quello del violino o del pianoforte, contemporaneo come i macchinari che ci investono per la strada o sugli schermi, che si srotola fuori dalle auricolari, un suono che non esiste perché falso, frutto di modifiche e rimaneggiamenti, eppure è qui a scivolarmi dentro, in tutto il suo splendido presente.

L'elettronica nel suo inganno mi risulta essere la musica più onesta.

Journeys (feat. Ekhi) by John Talabot on Grooveshark

domenica 16 dicembre 2012

Chromatics - Kill for Love

Chromatics, Kill for Love,
Italians Do It Better, 2012
L'avrei dovuto capire sin dall'introduzione. Aprire un disco con una cover è una pessima presentazione, tanto più se il pezzo in questione è fin troppo noto e la versione proposta non è carica come l'originale ma si limita a riproporne accordi e melodia, spogliandolo della calda densità che lo contraddistingueva per ammantarlo di una fredda e artificiale contrizione. Avrei dovuto averne la certezza quando i pezzi che seguivano quel poco riuscito preludio non aggiungevano nient'altro alle prime impressioni, anzi confermavano quella sensazione d'irritazione che provavo. Avrei dovuto, ma troppe recensioni entusiastiche mi hanno fatto desistere e ho permesso loro di farmi convincere che avrei dovuto dare un'ulteriore occasione ai Chromatics e al loro quarto album, perché in effetti un solo ascolto dei primi tre brani era troppo poco per accantonare il progetto, così ho proseguito, e poi, la copertina continua a piacermi e non mi dispiace vederla lì in alto a sinistra. Inoltre mi affascinava la possibilità di un intervento convintamente negativo.

Deciso ad andare fino in fondo ho ricominciato da capo l'ascolto. Ripercorrendo i primi tre brani l'irritazione si è trasformata in sorpresa: mi chiedevo come fosse possibile che questo fosse l'album di cui avevo visto parlare così tanto e bene. Bisogna sapere che prima di ascoltare un album cui voglio dedicarmi evito categoricamente la lettura di recensioni e interpretazioni di critica o ascoltatori, onde evitare qualsiasi influenza esterna alla mia immaginazione e al mio giudizio; non appena capisco quale sarà il successivo disco su cui concentrarmi, smetto immediatamente di ricercare informazioni al riguardo. Questo procedimento ha fatto sì che di alcuni futquo non conoscessi nemmeno il genere, e se talvolta ciò è stato all'origine di una gradita sorpresa, in questo caso si è rivelato una delusione.
xx, le due lettere che mi hanno attraversato la mente durante l'ascolto, e anche se gli americani Chromatics sono in giro da un bel po' di tempo prima dei giovani inglesi, alle mie orecchie il primato di quel suono gelido e distaccato resta agli xx, ed anche qui regna una ricercata sofferenza, un giovanilistico spleen annoiato e tenebroso voluto ad ogni costo, e la lentezza, gente, la lentezza. Al contrario degli xx, fenomeno comunque pop di facile commercializzazione, qui vi sono delle pretese d'appartenenza ad una élite, ma le lunghe suite di soporiferi suoni che cercano di rendere seria la tragicità di posa del gruppo cozzano contro gli squallidi vocoder da revival anni novanta che qua e là appaiano. Forse l'idea era quella di dare uno spessore a meccanismi tipici della musica "facile", ma rallentare i tempi non significa per forza intensificare le emozioni, ripetere di continuo il medesimo passaggio non rende il tema più incisivo.
Al di là di ogni considerazione resta sempre il piacere dell'ascolto, che purtroppo raramente ho provato grazie ai Chromatics, ritrovandomi anzi con l'amara nostalgia per il 1993 degli Ace of Base.

Ho provato a chiudere gli occhi, lasciarmi coinvolgere dalla musica, e mi sono ritrovato sprofondato in un'oscurissimo oceano, trascinato verso il basso, mentre il blu della superficie diventava sempre più nero e lontano. Cercavo di opporre resistenza, ma il mio corpo era attirato dall'abisso ignoto e spaventoso. Dimenarsi non serviva a nulla, perché ormai ogni possibilità di salvezza era svanita, e imperterrita la mia discesa procedeva, i miei polmoni si riempivano di acqua e di sale, e il giorno diventava notte, anche se sapevo che il sole era ancora alto sopra di me.

Lady by Chromatics on Grooveshark

sabato 8 dicembre 2012

Jason Lytle - Dept. of Disappearance

Jason Lytle, Dept. of Disapperance,
Anti, 2012
Prima di internet c'erano i negozi di dischi. Ci sono ancora, ma solo prima di internet erano il luogo da cui attingevo per conoscere nuova musica, e una volta, quando ancora ero un ragazzino che non conosceva le potenzialità della rete o che semplicemente non aveva la banda larga, mi trovai in libera uscita in uno di questi a Londra. I nomi dei gruppi sugli scaffali erano diversi da quelli presenti in Italia, mai sentiti o a lungo invano cercati in patria e così approfittai della situazione acquistando senza indugiare tre dei dischi che mi avrebbero segnato per i successivi anni. Il bottino comprendeva uno scontatissimo a sole 5 sterline Yoshimi Battles the Pink Robots dei Flaming Lips, una raccolta di due vecchi LP, Tadpoles e Keynsham, della Bonzo Dog Band e infine l'allora inedito Sumday dei Grandaddy.
Era la prima volta che mi azzardavo all'acquisto di artisti mai ascoltati prima e devo riconoscere di aver avuto fortuna: ogni album apparteneva ad un mondo diverso, ognuno dei quali diventò immediatamente mio, permettendomi di approfondire il nascente interesse per la musica.
Li ascoltai a non finire, imparando a conoscerne ogni dettaglio e maturando grazie ad essi un gusto personale e indipendente. Nel giro di breve tempo entrarono tutti e tre nell'ancora ristretta cerchia degli artisti preferiti in cui finalmente adesso comparivano dei gruppi ancora in vita. Si può quindi comprendere il mio disappunto quando qualche anno dopo, nel 2006, venni a sapere che Just Like the Fambly Cat sarebbe stato l'ultima opera dei Grandaddy, che di fatto sanciva lo scioglimento del gruppo. L'album era imperniato da una certa nostalgia, come se volesse far intendere che la fine era inevitabile, e questa ne era la maestosa espressione.
Sapevo già da tempo che dietro il nome Grandaddy si nascondeva il genio del suo leader, Jason Lytle, ma scoprire che l'intero ultimo disco della band -e il meraviglioso EP precedente- fosse stato scritto e suonato (quasi) esclusivamente da lui mi sorprese: capii che il progetto era cambiato, ma la sostanza rimaneva la stessa.
Cominciai così ad aspettare l'ufficiale debutto solista di Jason Lytle, intanto crebbi. Quando Yours Truly, The Commuter uscì, ascoltai con piacere che insieme a me anche la musica di Jason Lytle aveva raggiunto una nuova forma, intima e delicata. La mia passione per i Grandaddy avrebbe continuato a crescere.

Ho aspettato prima di ascoltare Dept. of Disappearance, volevo il momento adatto, l'intimità di cui avevo bisogno per poter approfondire quella relazione musicale intrapresa più di un decennio fa. Lontano da casa, proprio come quella volta in Inghilterra, ma con la stessa musica nelle orecchie, anche se diversa. C'è una tristezza di fondo in queste melodie, una fragile malinconia che si respira dall'inizio alla fine, un senso di solitudine che mi si appiccica addosso, eppure mi viene da pensare a quanto sia bello tutto ciò. C'è una flebile voce a rassicurarmi di fronte al buio dell'inverno che sta per arrivare, e anche se gli arrangiamenti appaiono grossolani nella loro imprecisione, quasi a sottolineare la naturale semplicità dei brani, c'è una monumentalità che si staglia imponente di fronte a me, ma che potrebbe spezzarsi con un tocco tanto è fragile. E poi arrivano quei momenti in cui tutto si scioglie, e allora lascio andare un sospiro di sollievo, pensando che la musica sarà sempre al mio fianco, qualsiasi cosa succeda, qualunque, ci sarà sempre la sua atmosfera che mi riscalda, mi riempie e mi

intanto, i Grandaddy si sono riuniti.

Willow Wand Willow Wand by Jason Lytle on Grooveshark

sabato 1 dicembre 2012

Godspeed You! Black Emperor - Allelujah! Don't Bend! Ascend!

Godspeed You! Black Emperor,
Allelujah! Don't Bend! Ascend!
Constellation, 2012
Dopo l'euforia iniziale, in cui entusiasticamente si abbracciano a rotazione gli strumenti disponibili, e aver sperimentato ogni possibile capriccio amplificato, arriva il momento in cui ci si accorge che forse sarebbe stato meglio provare prima per bene qualche pezzo invece di fiondarsi in sala prove con l'illusione che suonare con altre persone sia altrettanto semplice del farlo da soli. Un paio di sessioni siffatte dovrebbero avermi insegnato che il gruppo ha bisogno di studiare, è necessario un affiatamento niente affatto scontato per poter realizzare qualcosa che valga, eppure mi è accaduto più volte di presentarmi in sala prove impreparato come il resto della ciurma, e il processo si ripete: esaurite le novità del luogo, ci si ritrova con il semplice interrogativo, "e ora?". Se si escludono i tentativi di istruirsi vicendevolmente riguardo un ipotetico brano da eseguire, a questo punto rimane l'alternativa dell'improvvisazione. Una volta mi successe qualcosa di strano. Mi trovavo alla chitarra ed eravamo finalmente approdati al dilemma: in tacito accordo scegliemmo la pericolosa via dell'improvvisazione. Incominciai a far risuonare delle note, lente e ripetute, sempre le stesse tre, mentre intorno a me si stava erigendo un muro sonoro che evidenziava la solennità del mantra che stavo eseguendo. Ero concentrato sulla mia parte, ma allo stesso tempo sentivo di appartenere ad un disegno più ampio che coinvolgeva tutti gli elementi, ognuno racchiuso nella voce del proprio strumento, che insieme andavano a formare un unico essere, dove nulla prevaleva ma si trovava al posto giusto. Riuscivo a sentire la voce del gruppo. 

Un'opera in quattro movimenti, dove il rumore si trasforma in suono, sublimandosi in sinfonia. Senza i limiti di tempo e significato tipici della canzone, la musica dei Godspeed You! Black Emperor cresce imponente, lasciando che siano i suoni a comunicarsi in tutta la propria essenza. I tempi si dilatano, i minuti scorrono mentre mi sento preda delle vibrazioni e delle scene che stanno dipingendo intorno a me. Schizzi di inquietudine, l'impressione che stia per accadere qualcosa, ancora non mi è dato di sapere della sua bontà, ma ne percepisco l'importanza. Lentamente, e solo dopo una preparazione maturata in lunghe sedute, il velo si scosta e mi viene mostrata l'accecante verità. Distolgo lo sguardo tanto brilla, ma ne sono attratto e allora ritorno a guardare, e come a premiare il mio coraggio, la musica mi pervade, accendendomi proprio come ciò che sto fissando, e sento il giallo che sprigiono.

Un disco monumentale, che, se inizialmente mi aveva lasciato indifferente intuendone comunque la mole, con l'avanzare degli ascolti mi accorgo di quanto sia profondo e gigantesco. Un'illuminazione, che coi mezzi relegati a quello che fastidiosamente viene detto classico, mette in luce il potere della musica, la sua espressività, la catarsi che ne deriva. Un atto d'amore, quello che ho sentito mentre i violini si lasciano trasportare su un tappeto di chitarre ossessive e il procedere trascinato dei ritmi, fino a raggiungere la tanto ambita sospensione, e poi di nuovo, ancora e ancora.
La voce del gruppo, qualche volta mi è successo di farne parte, e ad ascoltare i GY!BE avviene anche senza uno strumento.

Post-rock lo chiamano, ma in futuro lo si dovrà cercare sotto classica.

We Drift Like Worried Fire by Godspeed You! Black Emperor on Grooveshark

venerdì 23 novembre 2012

Flying Lotus - Until the Quiet Comes

Flying Lotus, Until the Quiet Comes,
Warp, 2012
Rosso intenso. Un rosso vermiglio, di quelli che sgocciolano densi, al rallentatore, si allunga verso il basso, stirando il proprio colore senza intaccarne lo splendore, e poi si lancia placidamente verso il suolo, fino a sbatterci sopra, ma con dolcezza, spargendosi tutt'intorno. Un'altra goccia si affaccia timidamente dall'alto, come per vedere cosa sia successo, lentamente si protende verso di me per poi abbandonarsi in una caduta silenziosa, raggiungendo le tante macchie che già popolano il pavimento. Da sotto il tavolo non capisco la provenienza delle lacrime che mi piovono davanti, mi lancio quindi nella macabra ipotesi di un polso aperto appoggiato sulla superficie lignea, sommerso nel sangue che gli scorreva dentro e che scivola ora verso il bordo. Osservo i rossi rivoli che si vanno a creare di fianco ai miei piedi ed escludo la congettura appena formulata a favore di un più probabile rovesciamento della boccetta dell'inchiostro, che dimentico dei fogli traccia adesso incomprensibili disegni per terra, animato dal desiderio di comunicarmi qualcosa. Senza nessuna stilografica che lo guidi lo vedo muoversi confuso e indeciso sulle direzioni da prendere, eppure sono sicuro che stia seguendo un percorso, forse un istinto. Attendo.

Un sapore trip-hop in sfrigolature acid dalle sfumature free jazz e intenzioni dubstep, se solo sapessi cosa voglia dire. Ci potrei aggiungere l'atmosfera ambient e l'atteggiamento lounge, sorretti da impalcature elettroniche. Una martellante sofferenza ricopre delle lande desolate evocate dai suoni alienati e irregolari, e in mezzo alla confusione e all'irrequietezza percepisco il dolore, quello della solitudine. Un solo colore, il rosso, opaco e intenso, è quello che la mente mi offre mentre ascolto Flying Lotus, e per quanto io mi sforzi a cercare altre tonalità l'immaginazione torna sempre alla sua prima impressione, così intensa e definita, spaventosamente nitida. Le voci degli ospiti che di tanto in tanto compaiono nel disco non spezzano la catena di suoni, pennellate musicali che ritraggono un disordine ossessionato dalla sua stessa natura, ma anzi entrano in simbiosi con essi, e la loro evocazione musicale prevale su quella lirica. Melodie sgrammaticate, interrotte e riprese, abbozzate e dimenticate, Steven Ellison non si cura di compiacere l'ascoltatore o di assecondare il suo desiderio di voler riascoltare qualcosa di già sentito, e allora ecco che la sua musica intraprende direzioni sempre impreviste, eppure dalla prima all'ultima traccia si intuisce l'appartenenza ad un contesto, in cui ad ogni brano è affidata una parte del disegno complessivo. Si coglie una ragione, la cui interpretazione talvolta passa anche solo per un colore.

Rosso, dappertutto.

The Nightcaller by Flying Lotus on Grooveshark

sabato 17 novembre 2012

The Raveonettes - Observator

The Raveonettes, Observator,
Vice Records, 2012
Quando ero piccolo, molto piccolo, ero convinto che "la canzone" fosse stata inventata da un preciso gruppo nei lontani anni '60, e quando dico "la canzone" non intendo un pezzo che mi entusiasmi particolarmente, ma proprio il "formato canzone", un brano musicale cantato di tre minuti. Forse nella mia ingenuità credevo davvero che prima del '62 a nessuno fosse venuto in mente di usare la voce come strumento e le parole come supporto, o addirittura che prima di allora non esistesse l'idea di musica -terribile pensiero. Ovviamente non troppo tardi mi accorsi che i Beatles, così si chiamava il gruppo che mi trasse in inganno, non erano altro che un episodio neanche troppo originale di un certo momento storico musicale, che tanti avevano preceduto e altrettanti avrebbero seguito. Il potere del marketing e della sua banalizzazione erano però riusciti a ridurre la storia della musica in pochi nomi -Beatles, Elvis, Michael Jackson (...)- e dal momento che quelli di Liverpool erano i più anziani pensavo che a loro si dovesse il prodigio della musica. Poi crebbi, e seppure mi accorsi di essere stato vittima di un tranello ci ricaddi nuovamente: qualcuno mi disse che il rock'n'roll, quello che in questa seconda fase della mia vita credevo essere il primo genere della musica moderna, nacque nel '54 con la registrazione di Rock around the clock di Bill Haley & His Comets. Le nozioni sono così tranquillizzanti, permettono di ridurre ogni complessità in poche date, e il 20 maggio 1954 fu quella che mi permise di liquidare la faccenda musicale. Eppure non ero soddisfatto, in fondo non avevo fatto altro che anticipare di otto anni la certezza precedente, e mi venne il dubbio che forse avrei potuto spingermi ancora indietro, e poi ancora, e ancora.. quando venni a sapere che O sole mio era stata composta addirittura nel diciannovesimo secolo, finalmente capii che il fenomeno della canzone è qualcosa che accompagna gli uomini forse da sempre, da quando riunendoci intorno a un fuoco abbiamo cominciato a pestare dei bastoni sulle pietre e a far uscire dei suoni dalla bocca.

I tempi cambiano, gli strumenti pure, ma la necessità e la voglia di cantare restano.
La canzone è il mezzo più immediato per arrivare all'ascoltatore, senza spaventarlo e offrendogli una gamma di sentimenti incredibili nonostante il limite imposti dalla breve durata e dall'eterno susseguirsi di strofa e ritornello, eventualmente ponte. I Raveonettes sono fedeli alla Canzone, e armati solo dello stretto necessario, riducendo al midollo ogni possibile tecnicismo e alzando al massimo i riverberi e le distorsioni in sottofondo, offrono un breve compendio di cosa voglia dire fare canzoni oggi. Sono consapevoli di appartenere a un'epoca, non hanno la pretesa di fare qualcosa che la sovrasti, ma la raccontano. Testimoni del presente, sfruttano abilmente l'essenza indie proponendone le atmosfere, appoggiandosi su chitarre che si rincorrono lanciandosi in note cadenzate e arpeggi monotonamente ossessivi, pianoforti meditabondi e angosciati, batterie forti e penetranti. Semplici riff che ripetono il tema principale, cori abbozzati, duetti improvvisati e una trasandatezza di fondo, col suono sporco ed elettrico a evidenziare ogni imprecisione piuttosto che a nasconderla.
Cultori della regola dei tre accordi, raramente in un brano si spingono oltre e quando lo fanno l'impressione della semplicità e dell'immediatezza resta comunque.

Oggi non faccio più l'errore di un tempo, e anche se è vero che i Raveonettes non hanno inventato nulla di nuovo, comunque lo sanno fare bene.

Curse the Night by The Raveonettes on Grooveshark

venerdì 9 novembre 2012

Zammuto - Zammuto

Zammuto, Zammuto,
Temporary Residence Ltd., 2012
Mi è successo un'altra volta. Attirato dalla rotondità del suono non potevo immaginare che dietro il progetto Zammuto si nascondesse un uomo, che di nome fa Nick, di cognome Zammuto. I cognomi e il loro essere ormai ridotti ad ammassi letterali privi di senso mi attraggono più di quanto voglia ammettere. Zammuto, un cognome, un nome o un gruppo, ma fin dall'incipit mi accorgo essere una sigla col semplice compito di designare il self-titled, e la creatura che racchiude.

Un clima asettico, sterilizzato al fine di compiere una sofisticata operazione, il delicato passaggio da materia a vita. Nessuno zombie, non si riporta sulla terra alcun essere deformato dalla morte, tutto il contrario. Il progresso ha raggiunto un punto di svolta, la tecnologia si sveglia, i computer acquistano coscienza. Automi ancora legati nei loro movimenti iniziano a prendere confidenza con la loro nuova natura, ci viene presentato l'incredibile e misterioso passaggio da macchine ad animali.
La differenza che ha sempre distinto gli uomini dagli altri abitanti del pianeta è l'intelligenza, la capacità di adattamento alle circostanze e di memorizzazione attraverso la collettività, l'umanità appunto, ed è stato ciò che ci ha permesso di arrivare a sistemi complessi e sovrastrutturati come quelli che popoliamo e immaginiamo. Sono dell'idea che a un certo punto dell'evoluzione sia successa una cosa straordinaria alla nostra mente e alla percezione che abbiamo di noi stessi. L'incessante e naturale avanzata verso l'ignoto ha dovuto trovare una giustificazione razionale, ed affinché il nostro desiderio di comprensione riuscisse a concepire l'infinito e l'infinitesimo, il tutto, siamo giunti ad ingannarci, assegnando al nostro corpo e ai nostri impulsi nervosi una natura metafisica, che andasse oltre alle capacità che disponiamo: l'invenzione dell'anima e della consapevolezza che ne deriva.

Non tanto i suoni, ché in ogni prodotto elettronico o sperimentale ce ne sono di particolari, né le voci asessuate, rese innaturali dalle plurime distorsioni, sono state la ragione di queste riflessioni, piuttosto l'approccio che Zammuto porta verso la musica mi dà l'impressione che la sua opera sia la testimonianza di questo salto, del raggiungimento di una consapevolezza, che possa essere di tipo antropologico o anche solo personale, la conquista di un nuovo sé, una rigenerazione.
Un disco da penetrare nei suoi oscuri meandri, di difficile fruizione, ma anche qui non per la "poca musicalità" o per la "troppo contemporaneità", quanto per la sua espressione, decisamente diversa dall'usuale concezione di canzone -che comunque ad essa si rifà, tanto che mi è capitato di canticchiare l'improbabile vocalizzo di Yay, ridotto a uno spastico motivetto- e che arriva a toccare aspetti spesso trascurati della nostra persona.
Del nostro automa.

Zebra Butt by Zammuto on Grooveshark

sabato 3 novembre 2012

Efterklang - Piramida

Efterklang, Piramida,
4AD, 2012
Spengo la luce perché al buio è l'immaginazione a illuminare.
Giorno e notte si annullano, il nero artificiale e claustrofobico di una stanza senza finestre ha preso il loro posto. Apro e chiudo gli occhi per assicurarmi che non siano le palpebre ad impedirmi di vedere, ma non cambia nulla, una terribile assenza mi si stende di fronte. In ogni direzione un nero sconfinato accoglie i miei sguardi, e se con la mano cerco l'interruttore che ho premuto poco prima, non lo faccio per azionarlo, ma solo per mostrarmi di non essere sprofondato realmente in questo non-luogo. La mia ragione vuole sapere di avere la possibilità di tornare indietro. Discretamente, come per non denunciare una certa inquietudine, allungo le dita verso la parete, e nel momento in cui mi aspetto di trovare l'oggetto della mia ricerca, perdo l'equilibrio, e nessuna parete raccoglie le mie esitazioni, anche qui, il nero ha preso il loro posto. Colto da un'improvvisa disperazione agito le braccia in maniera scoordinata, senza pensare che in questo modo alimento solo le mie paure, ma devo trovare quel pulsante, schiacciarlo, tornare dove mi trovavo! Inutilmente le mie mani si aggirano da ogni parte, e dopo aver realizzato che intorno a me non c'è più nulla -l'avevo già intuito, non volevo accettarlo-, decido di respirare profondamente e chiudo gli occhi, senza provocare nessun apparente cambiamento alla realtà che mi circonda, ma adesso non c'è più la ragione a distrarmi. Solo in questo momento mi accorgo di come la causa della mia cecità non fosse il vuoto, ma la vista stessa. Mi concentro sulle impressioni, le sensazioni che la situazione mi offre, affidandomi agli altri sensi, noti e ignoti.

Mi muovo, inizialmente procedo a tentoni cercando di non sbilanciarmi troppo ad ogni passo che faccio, ma presto mi affido all'istinto, e ogni volta che inciampo, mi rialzo e ricomincio a vagare senza meta, deciso a raggiungerla. Non mi ero ancora reso conto del leggero odore di pesca, o forse melone, che si respira, annuso più forte, decisamente pesca. Cammino senza curarmi di avere una postura corretta, seguendo una direzione indefinita e delicatamente irrazionale. Ho perso la concezione del tempo, concetto che in questo spazio ha perso valore, come le proporzioni.
Lentamente sento avvicinarsi dei suoni, sospiri strumentali provenienti da ogni dove che giungono fino alle mie orecchie. Delle voci sovrumane, troppo umane, la cui intensità è monumentalizzata dalla quiete dei suoni su cui poggiano, si mischiano alle orchestrazioni che si vanno costruendo. Una presenza sonora ancora più acuta del buio che ho sconfitto mi sta assorbendo. Apro gli occhi e scopro una moltitudine sconfinata di suoni scorrere placidi, lasciano scie infinite da ripercorrere in un'altra forma, volteggiano e fluttuano come fosse la cosa più naturale. Riconosco tra loro voci e note, avverto echi e atmosfere, ma è difficile individuarle, si scompongono e si riformano in nuove creature, senza però alterare l'insieme, limpido.
Porto le mani al volto per avere conferma, le mie palpebre sono ancora abbassate.

The Ghost by Efterklang on Grooveshark

sabato 27 ottobre 2012

Tame Impala - Lonerism

Tame Impala, Lonerism,
Modular, 2012
Il concerto è l'incontro con l'artista. L'apice di una relazione, il momento in cui si concretizza quanto è racchiuso nei suoni, ricreandoli in un contesto estremamente intimo, diretto, rivolto all'ascoltatore, solo per lui, in quel preciso momento. Più di uno spettacolo, è l'esperienza fondamentale per cogliere appieno l'artista e l'interpretazione che dà alla sua opera, perché una volta nata questa potrebbe anche esistere senza lui, ma quando ti ritrovi davanti il creatore di quei suoni dare loro una veste inedita, sempre diversa, riesci ad andare al cuore della sua arte, a farti invadere dalla musica che ti circonda, presente e irripetibile. Alcune persone ce la mettono tutta per riuscire a dare eternità a quegli istanti, e allora ti distraggono con delle ingombranti macchine fotografiche, dando l'impressione di essere più interessati ad archiviare l'esperienza piuttosto che a viverla; altre invece non appena il ritmo comincia a farsi più frenetico si sentono giustificate ad alzare pugni e gomiti, dando finalmente senso alla loro impaziente attesa di salti e daichescattailpogo; altre ancora vedono nel concerto, soprattutto quello racchiuso nel formato festival, l'ennesima possibilità di socializzazione, corredata di birra e naturalmente amici.
Per quanto mi riguarda, concepisco il concerto come il mezzo principale di comunicazione tra me e i musicisti presenti sul palco, qualunque esso sia. La musica è il centro di questo dialogo prevalentemente unidirezionale, ma il mio apporto è fondamentale, gli artisti sono lì per me. Il luogo deve favorire questa connessione, permettendomi di concentrarmi appieno sulla creazione che mi circonda, per questa ragione amo i concerti nei teatri e nelle arene, un po' meno quelli nelle discoteche e negli stadi.
Non importa conoscere la musica che viene suonata, l'abilità di musicisti all'opera è anche quella di riuscire ad arrivare all'ascoltatore senza che questo li abbia mai ascoltati -mi è successo più volte di rimanere entusiasmato da "anonimi" gruppi spalla. Chiaramente se si affronta un concerto preparati, l'effetto può essere ancora più intenso, per questa ragione ho voluto conoscere i Tame Impala prima di andare ad ascoltarli dal vivo.

Suoni liquidi, che fluttuano, scorrono e si sciolgono. Distorsioni riverberi ritardi, una barriera sonora che si abbatte sulla mente, scaraventando onde di musica che rimbalzano per ogni angolo della testa, entrandoci confusamente per ricomporsi al suo interno. Canzoni semplicemente belle, esasperate e stravolte da un'idea, che le sublima attraverso suoni fluidi che avvolgono, e più stringono più ci si sente liberi. Spruzzi di colori accesi macchiano l'ascolto, rendendolo un variopinto collage di impressioni dai toni sorprendentemente opachi, perché sotto tanta euforia e freschezza si percepisce un certa inquietudine, che intensifica maggiormente la potenza del disco. Fare psichedelia in musica oggi è rischioso, ma Kevin Parker e i suoi Tame Impala ne hanno elaborata una propria, e dietro un visino innocente e una voce da bambino infastidito si nasconde un'uomo dalle idee chiare, con qualcosa da dire e la capacità di saperlo comunicare. Armato di innumerevoli artifici -in fase di montaggio palco mi ha stupito vedere comparire una sola tavola di effetti per la chitarra; mi ha rassicurato vederla affiancata da un'altra ancora più grande, per un totale di una ventina di pedali per un singolo strumento- il giovane Kevin Parker dà forma alle proprie immagini oniriche, e mi ipnotizza mentre la sua chitarra rincorre il proprio suono lasciandosi alterare da intricati meccanismi tecnologici.

Durante l'ascolto di Lonerism mi è successo una cosa strana. Mi trovavo immerso in una grigia palude, solo il mio capo sporgeva dal fango, riuscivo a respirare ma la sensazione che presto ne sarei stato inghiottito mi stava soffocando. Alzo la testa, sopra di me lontanissimi alberi stendono intricate liane che oscurano la luce del sole, facendomi credere per qualche istante che sia notte. Lentamente sento scivolarmi di dosso il liquame che fino a un attimo prima mi stava divorando, una strana forza mi attrae verso le fessure di luce che mi scrutano dall'alto. Una volta uscito dalla melma la mia ascesa non si ferma, adesso sono fuori, con tutto il mio corpo, ma continuo a salire, incessantemente, lentamente. Tendo un braccio verso l'alto e mi accorgo che anche i miei gesti sono rallentati. Una strana pace invade le mie azioni, la consapevolezza di raggiungere lo sbocco che mi libererà da questa prigione verde scura è una certezza, e non importa quanto ci metterò.
Ancora adesso, sto salendo.

Why Won't They Talk to Me? by Tame Impala on Grooveshark

venerdì 19 ottobre 2012

The Real Tuesday Weld - The Last Werewolf

The Real Tuesday Weld, The Last
Werewolf, 
Six Degrees, 2011
Mtv non trasmette più musica. Ormai quella grande M è oggi fine a se stessa, non più legata ad alcun usic sottointeso. C'è stato un tempo però in cui Mtv si era lanciata in un progetto ambizioso e misterioso, talmente oscuro da non lasciare comprendere agli spettatori che fosse di sua iniziativa. Flux.
Andavo ancora al liceo, nell'ozio pomeridiano comunque preferibile all'obbligo dello studio mi lasciavo prendere dalla pigra attività dello zapping televisivo, e mentre giravo a vuoto tra una trasmissione e l'altra mi sono trovato un giorno davanti ad un inedito canale che proponeva musica, ma diversa da quella che spesso mi infastidiva nella troppo commerciale Mtv - a quei tempi preferivo la più umile Viva-All music, più affine ai miei gusti di allora. La cosa particolare di Flux, l'inedito canale, era la sua totale assenza di presentatori e pubblicità: trasmetteva solamente video, uno dietro l'altro, di artisti di cui mai prima avevo sentito parlare e di cui cominciai immediatamente ad interessarmi. La chiamavano musica alternativa, e nella definizione rientrava tutto ciò che non trovava spazio nelle varie hitlist. Iniziai a trascorrere diversi momenti della giornata a conoscere nuova musica, abbinata ai video più improbabili e sperimentali, per me era un nuovo mondo -youtube non apparteneva ancora alle mie giornate. Ben presto mi accorsi che Flux trasmetteva blocchi di musica, una sessantina per mese, sempre in rotazione, così se non ero riuscito a segnarmi il nome del gruppo della canzone che mi piaceva -il titolo non compariva- avrei potuto farlo la volta seguente. Tra questi ci fu un video che mi entusiasmò particolarmente, un cartone animato in bianco e nero che faceva da sfondo ad una canzone uscita da un'altra dimensione, in cui le chitarre elettriche dai riff taglienti tipiche degli altri brani del canale erano sostituite da più pacati clarinetti e ossessivi coretti, una specie di dixieland che si appoggiava ad una drum machine. Quel gruppo divenne immediatamente mio.

The Real Tuesday Weld è il mio segreto.
Li ho scoperti ormai parecchi anni fa, ammesso che vederne un loro video in televisione possa renderli una mia scoperta, e sono diventati una mia costante musicale, uno di quei gruppi che seguo assiduamente, sperando un giorno di potere assistere a uno dei loro concerti fuori dal tempo, magari durante la proiezione di un cinema anni '40 o in una grande sala circondato da uomini in frac e donne dai lunghi strascichi in velluto seduti ai propri tavoli, o in un teatro, con gli occhi di bue illuminano tutti gli elementi della band mentre creano quel suono unico proveniente dal passato eppure così moderno.
Stephen Coates, l'anima del gruppo, crooner dei nostri giorni, musica delle immagini, la sua arte è così concreta, non stupisce quindi che un paio di album, tra cui l'ultimo, siano delle colonne sonore, non per film, ma per romanzi, scritti dall'amico d'infanzia Glen Duncan. Se però I, Lucifer, il primo progetto, risultava omogeneo nella sua malinconia e nei suoi suoni, con The Last Werewolf si spazia in svariati generi e umori, facendo prevalere un atteggiamento più spensierato e meno manierista. Nessun fruscìo di vinile in sottofondo, né sample charleston rubati a qualche registrazione anteguerra, ma una produzione pulita, senza sbavature e con diverse strizzate d'occhio a soluzioni più pop. Gli intermezzi rimangono, a sostegno di un collante che unisca le diverse scene raccontate, rendendole così contigue nonostante i grandi cambi di registro. La sua voce, sussurrata e fragile, compare e scompare, lascia spazio ad altri interpreti per poi tornare a riprendere le fila del disco. A struggenti valzer in solo pianoforte si alternano brani di un'energia inusuale al gruppo, e anche quando si tocca la sporca violenza del rock o l'illecita lussuria della techno, dopo la sorpresa e lo smarrimento iniziali si riesce a percorrere la strada che ci conduce all'intimità cui i Real Tuesday Weld mi hanno abituato a farmi cullare. E' allora un sollievo ritrovare quei dolci e lenti suoni appartenenti ad un mondo troppo buono per essere reale. Poesia circense.

giovedì 11 ottobre 2012

David Byrne & St. Vincent - Love This Giant

David Byrne & St. Vincent,
Love This Giant, 4AD, 2012
Che senso ha una recensione negli anni '00? Mentre si è ancora intenti a leggere l'intestazione - autore / genere / anno / casa discografica / durata - sullo schermo si è già caricata un'intera canzone tratta dal disco in questione; nel tempo che si spenderebbe a leggere delle parole che riassumono l'opera, si potrebbe ascoltare un estratto dell'album e crearsi una sommaria idea di ciò che ci si potrebbe attendere dal resto. In tutte i due i casi il giudizio che ne deriva sarebbe viziato da contingenze non poco rilevanti, nel primo caso dal recensore, nel secondo da qualche istante estrapolato dal contesto, ma perlomeno si ha un incontro diretto con l'artista, si potrebbe quindi concludere che l'ascolto sommario sia preferibile al tramite della recensione. In queste considerazioni non si tiene però conto della capacità del critico musicale, cultore esperto della materia e quindi più adatto a individuare ipotetici capolavori e ad allontanare i seducenti inganni del prodotto consumistico.
Sia l'uno che l'altro, direi. Magari prima si fa una scrematura attraverso la critica, evitando così di imbattersi in esperienze insipide, dopodiché si passa alla scelta personale, dovuta solitamente a ragioni minime - il nome del progetto, la copertina dell'album, l'associazione a qualcosa, l'istinto.. Infatti non basta il primo passaggio: troppi dischi sono considerati interessanti, troppe poche orecchie sono le nostre per dedicare un degno ascolto stereo ad ognuno di questi. Si da il caso che uno dei metodi più utilizzati per affrontare la seconda parte della scelta sia youtube: qui è facile rimbalzare da un'artista all'altro, spaziare tra generi più o meno affini, far attrarre la propria attenzione.

Non avevo intenzione di ascoltare David Byrne & St. Vincent per varie ragioni, comunque misere: il disco è frutto di una collaborazione, e raramente queste stimolano il mio interesse, soprattuto se uno degli artisti è a me ignoto; proprio in questi tempi ho deciso di continuare a coltivare i Talking Heads e anche se questo avrebbe potuto essere un incentivo ad ascoltare l'ultimo prodotto del loro leader, incredibilmente non lo era; la copertina del disco continua a non piacermi. Poi però sono capitato sul video di Who, e vuoi il bianco e nero, vuoi i fiati sbarazzini, fin dai primi istanti sono stato catturato. Gli artisti mi si sono presentati come se stessero rispondendo alle domande di Pina Bausch, mostrandosi nella loro eleganza e ironia, lasciando che la musica risplendesse di freschezza mentre si esibiscono in improbabili e trascinanti passi di (teatro)danza. Ho voluto immediatamente ascoltare anche il resto dell'album, forse dopo aver rivisto ancora un paio di volte il cortometraggio, permettendo così di inquinare la mia immaginazione, riempiendo la mia fantasia di immagini prefabbricate, per quanto belle. Il video è esteticamente impeccabile, e purtroppo questo ha fatto sì che mentre risuonavano nella mia testa le note di Who vedevo intorno a me la gente camminare in maniera sinuosa -e in bianco e nero- proprio come avevo visto fare a David Byrne e Anne Clark mentre assimilavo il brano le prime volte.

La prima cosa che salta all'orecchio mentre si ascolta Love this Giant è il ruolo insolito dei fiati. Tutto l'album, tutto!, sembra nato dall'esigenza di sfogare la potenza di trombe sassofoni corni tube su cui ogni struttura armonica si regge. Una batteria elettronica minimale, precisa e perfetta, accompagna le costruzioni, poco altro. Seppure sia David Byrne sia Anne Clark siano prevalentemente due chitarristi oltre che cantanti, le sei corde sembra quasi di non udirle, ad eccezione di alcuni interventi dal marchio tipico Byrne o St. Vincent (poi ho conosciuto anche lei, e in questo periodo oltre ai Talking Heads sono ritornati anche i Polyphonic Spree..!). Ogni canzone gode dell'appoggio incondizionato degli ottoni, e ci si ritrova a cantare perfino le parti a loro destinate. L'arrangiamento diventa così imprescindibile, non si riesce nemmeno a concepire una forma diversa da quella fornita, ogni brano ha bisogno di tutti quei fiati, senza di essi l'intero album perderebbe la sua essenza.

Mi era già successo di assistere a qualcosa di simile quando andai al concerto dei Cesarians, gruppo che alcuni definirebbero punk o perfino gothic. Mi aveva attirato la composizione particolare della band: tra gli strumenti nessuna traccia di chitarra o basso, al loro posto tromba, sassofono e corno, e l'effetto era sorprendente. Quest'album mi ha ridonato lo stesso stupore, ricordandomi quanto i fiati possano essere incisivi, liberati dal loro usuale ruolo di secondo piano. L'accostamento con una produzione dal sapore elettronico poi.. gente, che disco!

Who by David Byrne & St. Vincent on Grooveshark

mercoledì 3 ottobre 2012

Matthew Dear - Beams

Matthew Dear, Beams,
Ghostly International, 2012
La musica racconta il tempo, coglie lo spirito di un'epoca, lo elabora e lo rivela in tutte le sue forze e debolezze. Si potrebbe definire l'arte come una riflessione di un periodo. Si potrebbe, ma non lo faccio.
Ammiro le diaboliche costruzioni bachiane, mi sorprende la semplicità mozartiana impressa nella complessità, sono impressionato dall'epicità wagneriana (..) o ancora mi disinibisce lo sconfinamento nell'illecito jazzistico, mi stimola l'istinto rivoluzionario della pentatonica (..) eppure io sono altro.
Sparsa in tutta la gamma musicale riesco ad ascoltare ogni sfumatura della mia persona, ma difficilmente vi avverto la sua essenza. Il mio tempo ha bisogno del suo strumento.

Ho scoperto l'elettronica da troppo poco tempo per potermi professare un amante del genere, ma sono completamente stravolto dalla sua potenza espressiva, dalla sua capacità di riuscire a entrare nel mio corpo e sputarci fuori quello che vivo ogni giorno. Immerso in un mondo troppo complesso da comprendere, mi sento disorientato dalle indicazioni dei navigatori satellitari, invisibile di fronte alle innumerevoli parole che i cartelloni pubblicitari mi rivolgono, sorrisi forzati che mi seguono ovunque io mi diriga, mentre sulla faccia della gente leggo il disagio di doversi adeguare a qualcosa che non appartiene loro.

Il cemento è la mia natura, mi rifugio dentro a tunnel dai binari infiniti per raggiungere la mia meta, sempre troppo lontana, sempre troppo in ritardo. Le persone mi corrono davanti, e come una macchina fotografica con un'apertura d'obiettivo eccessivamente prolungata, vedo la loro angoscia lasciare la traccia dei profili alle loro spalle. Mi muovo in mezzo a quelle scie disumane e salgo sul mio vagone. La luce del sole non è mai entrata dove sono adesso, il grigio è il colore predominante, delle aste gialle sbiadite simulano il tentativo di nascondere l'opacità del luogo. Guardo i presenti intorno a me scendere e salire, ma sono sempre gli stessi.
Il ritmo scandisce la base del pezzo, un breve loop, freddo e meccanico su cui riesco a entrare subito in sintonia, dopo poche battute mi trovo già immerso in profondità, sono oltre lo spazio che mi circonda, da qui riesco a capire. Lascio che la musica completi il suo percorso, muovendosi attraverso passaggi che non sono consapevole di desiderare, le realizzazioni precedono le mie intenzioni, ogni suono è al posto giusto, essenziale. La forma è quella della canzone, stravolta ora dall'alienazione e l'indifferenza tecnologica, ora dall'esigenza di raccontare il contemporaneo, col risultato di una veste inedita, incredibilmente incisiva, vera.
Osservo i vicini, facce stanche e sguardi spenti, annoiati e annichiliti mentre guardano nel vuoto o fingono di interessarsi all'indice azionario, sempre troppo negativo.
Vedo una nuvola di fumo calare dal soffitto che cancella dalla mia visuale le monotone espressioni delle persone, le rende vaghe, imprecise, le deforma fino a farle diventare delle macchie indefinite, che si aggirano per la carrozza, fino a mischiarsi, confluendo in un'esplosione dai colori pallidi e smorti. Assisto alla scena immobile, rassicurato dalla voce profonda e sintetizzata di Matthew Dear che scandisce alle mie orecchie un canto primordiale, un rito vudu, una preghiera, o comunque un mezzo che mi preservi.
Dal mio tempo.

Do The Right Thing by Matthew Dear on Grooveshark

lunedì 24 settembre 2012

Grizzly Bear - Shields

Grizzly Bear, Shields,
Warp Records, 2012
Il grammofono ha portato la musica nelle case, donando all'ascoltatore la possibilità di vivere e rivivere il prodigio sonoro nella propria intimità. Le auricolari hanno esteso questa possibilità, rendendo ogni luogo un potenziale rifugio per sentire il proprio animo, distruggendo di fatto la magia.

Comporre è una faccenda personale. L'artista quando compone entra nelle proprie opere, ci vive dentro e cerca di trasmettere una sensazione, un'idea, un qualcosa, qualsiasi cosa, a chiunque vi si imbatta. Comporre è una faccenda personale sì, ma allo stesso tempo riesce a creare un intenso legame tra due esseri: l'autore e te, l'ascoltatore. Lo spettatore non è passivo, o almeno non lo dovrebbe essere, a lui infatti è dato il compito e il privilegio di recepire l'opera, di comprenderla, accoglierla, e viverla.

Arrivare dentro a uno sconosciuto non è facile, l'artista lo sa, non basta fare qualcosa di bello, bisogna andare oltre al semplice aspetto, è necessario imprimere un contenuto dentro quella veste estetica. Eppure la dedizione e la cura che gli artigiani dell'emozione prestano al proprio lavoro non sempre viene rispettata da coloro cui spetta il ruolo apparentemente più semplice, i fruitori.
Bombardati da una sconfinata quantità di stimoli, ci si trova continuamente costretti a scegliere di cosa beneficiare, favorendo spesso l'immediato al profondo, tradendo involontariamente il nostro rapporto con gli artefici. Con la convinzione di poter arricchire l'insaziabile desiderio di conoscenza, riempiamo ogni momento della giornata da nuove possibilità, senza permetterci riposo alcuno, e soprattutto dedicandoci all'impossibile senza concentrazione.

Me lo vedo, l'Artista che confeziona il suo regalo per l'Ascoltatore, lo ritocca incessantemente perché diventi più diretto, una spontaneità raggiunta solo grazie ad un incessante e duro mestiere. Non sa, l'Artista, che l'Ascoltatore non ha tempo da dedicare esclusivamente a lui, probabilmente investirà solo qualche ora per assaporare quel regalo, magari ritagliata da un lungo viaggio, o sovrapposta ad altre azioni. Non chiuderà gli occhi per farsi assorbire dal suono, non modulerà i propri respiri in base all'intensità del pezzo, non baderà alle singole note che si rincorrono, a quelle che si gonfiano o a quelle che vengono solo accennate, non ascolterà.

Vivo anch'io nel 2012, sono un ascoltatore di questo tempo, e nonostante sia una delle cose che più amo nella vita, ammetto di avere difficoltà a dedicare il tempo che vorrei alla musica. C'è un luogo però che mi ripaga di tutto il pessimo e superficiale ascolto di cui mi circondo. Probabilmente l'Artista si immagina l'Ascoltatore rintanato in un letto, avvolto dalle tenebre, mentre ascolta le sue opere, perché sa che è esattamente quello il luogo. Il momento più intenso arriva quando ci si lascia travolgere da ciò che si sta ascoltando, entrando quasi in uno stadio di dormiveglia, a quel punto la musica si impossessa di tutto il cervello, trasformando l'esperienza da uditiva a cerebrale e si dipingono delle sinestetiche immagini


mi trovo immerso in quello che rimane di una foresta, indosso una strana armatura, guardo le mani e mi accorgo di stringere degli strumenti provenienti da un'era ormai scomparsa. Scruto intorno a me le macerie ancora fresche di ciò che mi circonda. La sensazione di essere sopravvissuto ad una tragedia. Un tronco bruciato completamente nero attira la mia attenzione, mi ci avvicino per scoprire un cumulo di cenere. Stordito e confuso mi aggiro reggendomi a fatica sulle gambe, devo aver lottato, ma non ricordo contro cosa, non ricordo contro chi, e soprattutto non ricordo perché. Getto per terra quelle ridicole armi, un mazzafrusto e una daga spezzata, e mi domando come abbia potuto resistere così attrezzato in quella distruzione. Mi libero della cotta di maglia che mi rende difficili i movimenti e resto vestito solo di un paio di pantaloni sgualciti, strappati e sporchi. Per terra la sabbia, e solo allora mi rendo conto dei colori innaturali del luogo. Il cielo marrone sovrasta sopra il grigio consumato delle macerie, e un arancione spento attutisce i miei passi. Mi siedo e ascolto. Il suono di una rinascita, quella che inevitabilmente giunge dopo una sconfitta. Forse ho perso? Sono stato risparmiato per pietà? Sono scappato? Non lo so, sono vivo. Cotta di maglia, daga, mazzafrusto giacciono a terra e contrastano con la rovina presente, figlia di una catastrofe nucleare: una mostruosa e cupa nuvola mi osserva imperterrita dall'alto, espandendosi lentamente fino a ricoprire l'intera distesa con la sua incombente ombra. Echi e riverberi si trascinano nell'aria, come rievocassero ciò che doveva essere successo prima che precipitassi qui dentro. Ascolto il vento, che mi racconta di sofferenza, desolazione, solitudine. Voci ora stanche e sconfitte mi parlano di una fine ormai arrivata mentre altre più sfuggenti mi lasciano intravedere un nuovo inizio. Capisco che entrambe hanno ragione, essendo l'una la conseguenza dell'altra, e viceversa.
Mi faccio coraggio, mi rialzo e continuo a camminare. Adesso l'equilibrio è più facile da mantenere. Un insolito verde mi segnala la presenza di alcuni germogli sommersi dalla cenere, mi chino per liberarli da quel peso mortale e ne scopro degli altri vicini. Gli echi e i riverberi si solidificano, assumono spessore e colgo un senso di nostalgia, e di consapevolezza. Qualche nota di pianoforte aleggia intorno, vola via per poi ritornare. L'assenza è così presente.

Forse ho vinto? Sono stato io a risparmiarmi, mi sono fermato in tempo?
Sono ancora vivo.

Gun-Shy by Grizzly Bear on Grooveshark

lunedì 17 settembre 2012

Pet Shop Boys - Elysium

Pet Shop Boys, Elysium,
Parlophone, 2012
Li abbiamo visti trionfare allo stadio olimpico di Londra, futuristici e statuari, e anche se l'arena ha serbato il suo giubilo per altri momenti, io ho esultato. Mentre nell'intero stadio riecheggiavano le note di West end girls, la canzone che quasi trent'anni fa li presentò al pianeta, imperturbabili e immobili sfilavano lungo la pista dove al resto del mondo era richiesto di correre fino alla nausea, loro, i Pet Shop Boys.

Passano i decenni, giungono le rughe ma Neil Tennant e Chris Lowe restano fedeli all'immagine che hanno mostrato la prima volta, riproponendo ancora una volta la loro personale soluzione allo scontro tra arte e intrattenimento: è incredibile la capacità del duo di far coesistere così pacificamente i due aspetti antitetici della musica, consumo e riflessione. Elettronica da una dose affiancata a voci profetiche, suoni digitali che avvolgono una voce un po' troppo nasale, e per questo ancora più viva sopra a tutti quei sintetizzatori robotici.

La formula segue il canovaccio di sempre: una parola, Elysium, e delle canzoni.
Non un disco, ma una collezione di pezzi fatti di musica e parole. Nessuna unità che leghi le canzoni fra di loro, nessuna continuità, ogni episodio è a sé, completo e realizzato, senza alcun bisogno di anticipatori o successori. Perfetti canzonieri, un po' come i Queen, i Pet Shop Boys sono capaci di crearti un'atmosfera, una potente sensazione nel breve sviluppo di un brano, dai 3 ai 5 minuti. Non stupisce quindi l'ingente mole dei singoli prodotti dai Pet Shop Boys, e del loro successo. Laddove altri artisti necessitano di un intervallo di tempo ben più esteso, loro ci arrivano in un attimo.
Mi è bastato ascoltare una sola volta Leaving per desiderare nuovamente di riviverla senza curarmi di terminare il disco -e dire che è la prima traccia!- come di solito faccio prima di concedere gli eventuali bis in attesa di riascoltare l'intero. Ogni brano vive di vita propria, e se si trova raccolto assieme agli altri è solo un caso. Tra le mani ci si ritrova il classico prodotto pop, la compilation, solo che qui gli artisti sono sempre gli stessi, i sintetizzatori pure, ma le immagini radicalmente e densamente diverse. Dall'ossessiva Ego Music dove pare di ascoltare echi di Art of Noise e degli ultimi Sparks, quelli di Ugly boys with beautiful girls per intenderci, alla trionfante hit che strizza l'occhiolino alle emittenti radiofoniche, dalla sofferta introspezione allo spaccato da musical, figlio forse dell'esperienza del balletto di un paio d'anni fa, abbiamo un universo da ascoltare, e se è vero che ad eccezione di alcuni capitoli le aspettative date dai precedenti Fundamental e Yes restano leggermente insoddisfatte, perché da quei due si pretende sempre di più, mi trovo ora con un nuovo tesoro nel mio olimpo personale, proprio lì, di fianco alla fondamentale Yesterday, when I was mad.

Leaving by Pet Shop Boys on Grooveshark

lunedì 10 settembre 2012

Dumbo Gets Mad - Elephants at the Door

Dumbo Gets Mad,
Elephants at the Door,
Bad Panda Record, 2011
Il giudizio si forma col tempo, cresce con la personalità e l'esperienza, e se non si impone sulle influenze, ne viene assorbito. Da piccolo, dopo aver smesso i pannolini dell'infante per indossare quelli dello scolaro, mi affacciavo curioso al mondo del disegno animato, sguazzando a tempo pieno nel mio impero di disneyane videocassette. Riguardavo ciclicamente ogni titolo in mio possesso, poi col tempo cominciai ad operare delle vere e proprie scelte, dando luce a delle preferenze visibili nelle due file di cassette che andavano a riempire l'apposita mensola: davanti, le pellicole più acclamate; dietro, i titoli che credevo non avessero più niente da darmi. Dovettero passare parecchi anni prima di ridare un'altra possibilità alla seconda fila. Non ricordo più la ragione per cui rispolverai proprio lui, forse sospettavo mi fossi perso qualcosa, forse avevo semplicemente voglia di rivederlo, ad ogni modo eccomi là, all'età della bottiglia a trascorrere il pomeriggio davanti al televisore per guardare Dumbo.
Fu una rivelazione, mi aspettavo una favola per bambini e mi ritrovai un'opera visionaria, densa di idee e sentimenti, c'era tutto, la vita il circo la sofferenza la gioia la musica la vendetta la fiducia.. Dumbo è una di quelle cose che ogni volta che riprendi tra le mani scopri una nuova prospettiva che ti era sfuggita, o che non eri in grado di cogliere al suo tempo. Come succede col Piccolo Principe.

La musica di Dumbo è qualcosa di sublime, a cavallo tra la filastrocca e la psichedelia, toccando ora sfumature di una dolcezza unica e di una violenza esasperata. Me ne innamorai, e ad ascoltare i Dumbo Gets Mad credo di non essere stato l'unico.


Le intenzioni sono chiare fin dall'incipit dove un suono indistinto e sporcato dalle molteplici direzioni ci introduce nell'onirico mondo che ci sta aspettando: Dumbo è caduto di nuovo nella botte ma non ne esce sbronzo, adesso è pazzo. Li vedi quei rosafanti ballare davanti a te, ne vieni anche turbato ma è un attimo, la musica è troppo coinvolgente per esserne spaventati e neanche capisci come sia successo, ti ritrovi a muoverti in mezzo a loro. Le immagini si sciolgono, d'improvviso è notte e le stelle affollano il cielo, splendono di una luce irreale, dilatate dalla nostra instabilità mentale. Spicchiamo il volo e ci troviamo a viaggiare in mezzo a quei punti luminosi, li raccogliamo tra le mani, ci facciamo pungere dai loro raggi e li lasciamo liberi, scoprendo un cumulo di cenere bianca tra i palmi. Ci stiamo allontanando, inghiottiti dal buio più cupo, l'universo dietro di noi, sempre più piccolo, più indistinto. Ci giriamo per osservarlo ancora un'ultima vuota, prima di svoltare l'angolo e allontanarci definitivamente. Niente. Ci troviamo nel nulla, accolti da ritmi sincopati e voci multiformi, sembra perfino di udire un indistinto Paperino, le nostre fantasie si confondono con l'ambiente che ci circonda. Sintetizzatori sfuocati ci ipnotizzano mentre cerchiamo di capire da dove provenga tutta quella musica e solo allora ci accorgiamo dei colori che popolano quel buio più cupo. Vedo il giallo, dondolarsi regolarmente, cadenzando le sue sfumature, e il blu, che lo abbraccia facendolo ruotare in un ballo frenetico, e poi colori che non avevo mai visto, che non appartengono a nessun mondo, ma solo alla fantasia. Improbabili arcobaleni si sdraiano ai nostri piedi invitandomi a seguirli, e io accetto l'invito.

La mia pazzia sono le auricolari nelle orecchie, e i Dumbo Gets Mad che suonano per una festa il cui unico invitato sono io.

Marmelade Kids by Dumbo Gets Mad on Grooveshark

domenica 2 settembre 2012

Get Well Soon - The Scarlet Beast O'Seven Heads

Get Well Soon, The Scarlet Beast
O'Seven Heads
, City Slang, 2012
Per qualche strana legge naturale la meteorologia rispecchia lo stato d'animo, o più ragionevolmente la propria emotività viene influenzata dalle condizioni climatiche.

Piove, esattamente come quel giorno.
Sconfitto scendevo le scale del condominio, convinto di non risalirle mai più. Qualche goccia scivolava dalle grondaie richiamando il mio sguardo, dense nuvole sul punto di scoppiare riflettevano i miei sentimenti, lacerati. Seguivo i miei passi, non sicuro di dove mi avrebbero condotto, potendolo solo immaginare, e riflettevo, sugli errori, sui rimedi, sulla pioggia. Bisognoso di conforto e desideroso di ascoltare nuove voci, entrai nel mio tempio trovandomi immerso in cumuli di dischi che mi osservavano da ogni angolo. Girai brevemente a vuoto quando la mia attenzione venne attratta dall'immagine di un uomo dai colori sbiaditi che disperato si cancellava il volto con le proprie mani, un quadro inquietante che mi tolse ogni dubbio: quello era ciò che stavo cercando. Allungai il braccio per prendere l'oggetto e leggere la scritta a lato del dipinto, Get Well Soon Vexations. Non capivo cosa fosse il nome del gruppo e cosa il titolo dell'album, ma mi piaceva il contrasto creato dalle parole e dal disegno.
Non ci misi molto a capire l'inganno: get well soon non era una promessa, era un augurio. Per di più, non era rivolto nemmeno a me, ma a tutti, e soprattutto a Konstantin Gropper, l'artefice di quei dolci tormenti. Naturalmente non mi fece sentire meglio ma l'ascolto di quella musica mi permise di ridimensionare i dolori che mi perseguitavano, collocandoli in un contesto più ampio, universale, in cui essi occupavano una posizione minima, e sorrisi delle mie pene. 

Passano i millenni, e le angosce umane restano sempre quelle, così, a due anni di distanza da quel giorno mi ritrovo ad affrontare nuove piogge, nuovi tormenti, sempre gli stessi eppure nuovi, e Get Well Soon è ancora qui, a tenermi compagnia, a mostrarmi quanto tutto ciò mi renda umano e grande, e se dovesse venirmi il dubbio, no, non sono solo, la mia condizione è cosmica, così insignificante e assoluta allo stesso tempo.
Nessuna sofferenza, ma un'elegante ed estetica decadenza, dimentica del dolore innalzato ora ad arte,
sorretta da maestosi barocchismi e straripante epicità. Il ritmo si trascina, consapevole di ciò che viene narrato, gli strumenti inizialmente intimiditi dalla portata del messaggio si rinforzano di riverberi e strategie rock, chitarre assassine e voci tenebrose, fino a farsi travolgere da una delicata potenza di cui sono fatti messaggeri.

Ho letto un'intervista a Konstantin Gropper ma non ci ho capito troppo. L'incomprensione forse era dovuta al fatto che era scritta in tedesco, ma più probabilmente perché una musica come quella dei Get Well Soon non si può raccontare, né racchiudere nella parola Melincholie cui spesso accennavano nell'articolo. La sua musica è così densa che basta un brano a caso per penetrare in quel misterioso mondo angosciato e malinconico, ma c'è qualcosa di più, non un lamento, un trionfo. Cori provenienti da mondi ultraterreni, chitarre assassine e giubilanti fiati annunciano un'apocalisse interiore ma ci dicono di non aver paura, non dobbiamo provare compassione né cercare redenzione o alcun altro tipo di salvezza, dobbiamo solo sentirla, e viverla, perché è questo che ci rende reali, e simili.
Ogni nota, protratta così a lungo, ogni battito, violento e irruente, ogni costruzione armonica, riflessiva e introspettiva, trova la sua naturale disposizione permettendo a chi la ascolta di raggiungere quell'assoluta empatia, perché solo così si può realizzare l'augurio inciso su ogni copertina e superare ogni tormento.

Quelle scale, le risalii.

You Cannot Cast Out The Demons (You Might As Well Dance) by Get Well Soon on Grooveshark

venerdì 20 luglio 2012

The Beach Boys - That's why God made the Radio

The Beach Boys, That's why God made
the Radio
, Capitol Records, 2012
Dei supporti musicali, alla mia infanzia è toccato il peggiore, la cassetta.
Udivo distrattamente intorno a me nostalgiche voci d'ogni età decantare lo splendore dell'era lp, dove il suono analogico era vivo e il formato elegante (voci insistenti o radicalmente vere se perfino oggi mi capita di incontrare ragazzi più giovani di me che pensano la stessa cosa), mentre tra le mani avevo un bizzarro oggetto con due buchini, e un nastro che se provavi ad avvolgerti intorno al dito poi all'ascolto successivo avresti sentito i musicisti lamentarsi per un'improvvisa e non voluta interruzione, dopodiché la canzone era persa per sempre. Tra le altre cose, la cassetta aveva un grande limite, inconcepibile nell'era mp3 eppure di grande familiarità fino a poco più di dieci anni fa: non potevi scegliere la canzone, o meglio, potevi cercare di acchiapparla alternando un REW a un FF, ma dovevi essere davvero deciso a volerla recuperare, e il più delle volte finiva che ti accontentavi di ascoltarla già iniziata, oppure -come facevo io- di ascoltare gli ultimi 20/30 secondi della canzone precedente.

C'era una cassetta, rubata a qualche fratello, che ascoltavo ripetutamente, senza tirare avanti o indietro alcun pezzo, ma rispettando l'ordine che le era stato dato, e anzi, considerandola quasi come un'unica canzone. Ogni volta che l'avevo nelle orecchie era una gioia, mi sentivo sopra a tutto, e immaginavo di andare in bicicletta, sentire il vento tra i capelli e pedalare verso il sole che si nascondeva dietro il mare. Mi dava energia, e forse l'immaginarsi in bicicletta a pedalare grintosamente era un modo come un altro di un ottenne per esaltarsi. Quella cassetta, o meglio il suo lato A, è stato il mio primo contatto con i Beach Boys. I get around, Fun fun fun, California Girls, Good vibrations (..) erano un concentrato di allegria e trionfo, di eterno ottimismo, e io l'ho amavo. Poi un giorno girai la cassetta, forse solo per curiosità, a me bastava il primo lato, era già enorme il mondo che mi dava. Scoprii con stupore che c'era un altro aspetto nella musica dei Beach Boys, più introverso e intimo. Wouldn't it be nice, Heroes and Villains, Darlin', Break away (..) mi mostrarono una nuova dimensione, e fu l'inizio di un amore che non si è più interrotto. Sono cresciuto ascoltando musica di trenta, quarant'anni prima e mentre mi facevo grande, la storia dei Beach Boys mi scorreva nelle orecchie. All'esuberante e spensierato surf iniziale seguì la ricerca del suono perfetto, melodie e armonizzazioni che si rivolgevano direttamente a dio, pazzie di un genio troppo fragile. Alle immagini solari degli otto anni si sostituirono quelle più cupe e travagliate dei quindici, e l'autore era sempre lui, Brian Wilson.

Ho esitato ad ascoltare il nuovo disco dei Beach Boys, cercavo un continuo pretesto per distogliere l'attenzione dall'evento. Fino a due anni fa un disco del genere sarebbe stato impensabile, tanto che i Boys, ormai trasformatisi in arzilli vecchietti, erano divisi in tre gruppi diversi, ognuno dei quali portava in scena materiale del gruppo e non intendeva compromessi con gli altri. Ma poi, giunse l'anniversario. Il gruppo compie 50 anni, nuovo disco con quello che è rimasto della band riunita e tour mondiale! La paura di una mossa commerciale dichiarata mi creava non pochi disagi a prendere in mano il disco, timoroso di una colossale delusione di quelli che furono e continuano ad essere tra i miei eroi.
Sentirli di nuovo tutti insieme, le loro voci che si mescolano in armonizzazioni e coretti à la Beach Boys è la prima cosa che attira l'attenzione, e si è troppo concentrati a riconoscere i timbri per poter badare alle melodie, che a un primo ascolto sfilano innocue, non catturano ma allo stesso tempo non disturbano e ti fanno tirare un sospiro di sollievo "almeno, non è brutto". Poi si prova ad ascoltarlo, come fosse un album e non una reliquia, e ci si accorge che contiene dei grandi pezzi, belli e intensi, il cui marchio Brian Wilson vi è impresso forte, e le voci del gruppo si alternano con un'intesa tipica di quello che è stato un tempo, e a quanto pare, è ancora. Nessun tentativo di riproporre vecchi ritornelli, il surf e le belle ragazze appartengono al passato, così come il buio e l'angoscia. Quello che resta è la consapevolezza per ciò che si ha vissuto, gioia e spensieratezza, ma anche intimità e malinconia, e la maturità di saperlo rielaborare.
A volte, è giusto fermarsi, per restare sempre nei cuori dei fan. Non in questo caso.

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From There To Back Again by The Beach Boys - www.musicasparabaixar.org on Grooveshark