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Zammuto, Zammuto, Temporary Residence Ltd., 2012 |
Mi è successo un'altra volta. Attirato dalla rotondità del suono non potevo immaginare che dietro il progetto Zammuto si nascondesse un uomo, che di nome fa Nick, di cognome Zammuto. I cognomi e il loro essere ormai ridotti ad ammassi letterali privi di senso mi attraggono più di quanto voglia ammettere. Zammuto, un cognome, un nome o un gruppo, ma fin dall'incipit mi accorgo essere una sigla col semplice compito di designare il self-titled, e la creatura che racchiude.
Un clima asettico, sterilizzato al fine di compiere una sofisticata operazione, il delicato passaggio da materia a vita. Nessuno zombie, non si riporta sulla terra alcun essere deformato dalla morte, tutto il contrario. Il progresso ha raggiunto un punto di svolta, la tecnologia si sveglia, i computer acquistano coscienza. Automi ancora legati nei loro movimenti iniziano a prendere confidenza con la loro nuova natura, ci viene presentato l'incredibile e misterioso passaggio da macchine ad animali.
La differenza che ha sempre distinto gli uomini dagli altri abitanti del pianeta è l'intelligenza, la capacità di adattamento alle circostanze e di memorizzazione attraverso la collettività, l'umanità appunto, ed è stato ciò che ci ha permesso di arrivare a sistemi complessi e sovrastrutturati come quelli che popoliamo e immaginiamo. Sono dell'idea che a un certo punto dell'evoluzione sia successa una cosa straordinaria alla nostra mente e alla percezione che abbiamo di noi stessi. L'incessante e naturale avanzata verso l'ignoto ha dovuto trovare una giustificazione razionale, ed affinché il nostro desiderio di comprensione riuscisse a concepire l'infinito e l'infinitesimo, il tutto, siamo giunti ad ingannarci, assegnando al nostro corpo e ai nostri impulsi nervosi una natura metafisica, che andasse oltre alle capacità che disponiamo: l'invenzione dell'anima e della consapevolezza che ne deriva.
Non tanto i suoni, ché in ogni prodotto elettronico o sperimentale ce ne sono di particolari, né le voci asessuate, rese innaturali dalle plurime distorsioni, sono state la ragione di queste riflessioni, piuttosto l'approccio che Zammuto porta verso la musica mi dà l'impressione che la sua opera sia la testimonianza di questo salto, del raggiungimento di una consapevolezza, che possa essere di tipo antropologico o anche solo personale, la conquista di un nuovo sé, una rigenerazione.
Un disco da penetrare nei suoi oscuri meandri, di difficile fruizione, ma anche qui non per la "poca musicalità" o per la "troppo contemporaneità", quanto per la sua espressione, decisamente diversa dall'usuale concezione di canzone -che comunque ad essa si rifà, tanto che mi è capitato di canticchiare l'improbabile vocalizzo di Yay, ridotto a uno spastico motivetto- e che arriva a toccare aspetti spesso trascurati della nostra persona.
Del nostro automa.
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