Sébastien Tellier, My god is blue, 2012, Record Makers |
L'aria da santone, con quella barba densa, il capello lungo e sciupato, gli impenetrabili e futuristici occhiali da sole, l'ha sempre avuta, ma solo ora Sébastien Tellier ha esorcizzato ogni sua profezia, donandole forma e colore in una collezione di imponenti e spaventosi visioni. Vestito di un candido bianco, un completo dalle pieghe perfette, si innalza lentamente da terra, accompagnato da un pomposo e sintetico sottofondo orchestrale lievita qualche centimetro dal suolo. Manca solo un'aureola a cingergli il capo per sublimare la migliore realizzazione di un kitsch mistico, e così la cerco dappertutto, non trovandola, e intanto la sua ascesa è terminata, fermandosi a qualche spanna sopra di me, tanto quanto basta per dover alzare lo sguardo per guardarlo. Lo osservo: immobile, statuario, severo e immagino il suo sguardo, due cavità buie, il solo pensiero mi intimorisce. Non riesco a muovermi, le mie gambe sono pietrificate, o forse è la mia volontà che mi fa restare fermo, curioso di vedere cosa potrebbe succedere, e come mi leggesse nella mente, mi fa un cenno d'assenso e improvvisamente il canto gregoriano si trasforma in una violenta dance, lenta e angosciata come la preghiera che l'ha preceduta, senza rinunciare però alla potenza del riff del basso e l'ossessione del sintetizzatore. Sospeso in aria lo guardo muoversi forsennatamente seguendo i forti accenti del ritmo mentre la sua voce sofferente sovrasta ogni suono, i suoi respiri affaticati fanno intuire l'imminenza di una catastrofe, una silenziosa distruzione che seguirà la fine del suo spettacolo e allora prego perché quell'annunciazione non termini più. Intorno a noi la musica pesta incessante, richiamando ora atmosfere di altri profeti quali i norvegesi Royksöpp o i conterranei Daft Punk -di cui si avverte la presenza nei dintorni-, ora le peggiori produzioni di un hip hop americaneggiante, ma si ha sempre l'impressione di ballare sul confine di due mondi distinti. Da una parte noi, i piedi stretti dentro le calzature, incollati a terra, dall'altra lui, i piedi scalzi che si dimenano nell'aria, e per la prima volta mi raggiunge la spiacevole sensazione che l'apocalisse cui sto assistendo non riguarda noi umani, ma solo me, umano. Lo vedo contorcesi, dilatare la bocca in svariate smorfie, intravedo talvolta dei sorrisi, o forse mi sto solo illudendo, eppure la melodia intorno a noi mi fa sperare. Guardo in basso e mi accorgo che il mio appoggio, quella umile terra, non si trova più così vicina, la vedo allontanarsi, farsi piccola, piccola, alzo lo sguardo e.. non c'è più. Il cavaliere senza cavallo e senza spada ma con una voce più forte di una tromba non è più davanti a me, al suo posto solo buio e qualche spietata nota di un Bach.
Dietro di me un pubblico fino allora assorto e invisibile batte le mani, il sipario si alza mostrando un Sébastien Tellier ancorato al palco che si inchina ripetutamente, gli occhiali in mano. Mi guarda, è un attimo ma colgo il suo ammiccamento. Si gira a presentare l'orchestra che si esibisce in un trionfante rock anni '80 e il mio stupore ritorna ad essere angoscia nello scoprire un plotone di musicisti che si scatenano follemente, tutti vestiti di bianco, tutti uguali tra loro ma ognuno con uno strumento diverso in mano, innumerevoli Sébastien Tellier.