martedì 29 maggio 2012

Sébastien Tellier - My god is blue

Sébastien Tellier, My god is blue,
2012, Record Makers
L'aria da santone, con quella barba densa, il capello lungo e sciupato, gli impenetrabili e futuristici occhiali da sole, l'ha sempre avuta, ma solo ora Sébastien Tellier ha esorcizzato ogni sua profezia, donandole forma e colore in una collezione di imponenti e spaventosi visioni. Vestito di un candido bianco, un completo dalle pieghe perfette, si innalza lentamente da terra, accompagnato da un pomposo e sintetico sottofondo orchestrale lievita qualche centimetro dal suolo. Manca solo un'aureola a cingergli il capo per sublimare la migliore realizzazione di un kitsch mistico, e così la cerco dappertutto, non trovandola, e intanto la sua ascesa è terminata, fermandosi a qualche spanna sopra di me, tanto quanto basta per dover alzare lo sguardo per guardarlo. Lo osservo: immobile, statuario, severo e immagino il suo sguardo, due cavità buie, il solo pensiero mi intimorisce. Non riesco a muovermi, le mie gambe sono pietrificate, o forse è la mia volontà che mi fa restare fermo, curioso di vedere cosa potrebbe succedere, e come mi leggesse nella mente, mi fa un cenno d'assenso e improvvisamente il canto gregoriano si trasforma in una violenta dance, lenta e angosciata come la preghiera che l'ha preceduta, senza rinunciare però alla potenza del riff del basso e l'ossessione del sintetizzatore. Sospeso in aria lo guardo muoversi forsennatamente seguendo i forti accenti del ritmo mentre la sua voce sofferente sovrasta ogni suono, i suoi respiri affaticati fanno intuire l'imminenza di una catastrofe, una silenziosa distruzione che seguirà la fine del suo spettacolo e allora prego perché quell'annunciazione non termini più. Intorno a noi la musica pesta incessante, richiamando ora atmosfere di altri profeti quali i norvegesi Royksöpp o i conterranei Daft Punk -di cui si avverte la presenza nei dintorni-, ora le peggiori produzioni di un hip hop americaneggiante, ma si ha sempre l'impressione di ballare sul confine di due mondi distinti. Da una parte noi, i piedi stretti dentro le calzature, incollati a terra, dall'altra lui, i piedi scalzi che si dimenano nell'aria, e per la prima volta mi raggiunge la spiacevole sensazione che l'apocalisse cui sto assistendo non riguarda noi umani, ma solo me, umano. Lo vedo contorcesi, dilatare la bocca in svariate smorfie, intravedo talvolta dei sorrisi, o forse mi sto solo illudendo, eppure la melodia intorno a noi mi fa sperare. Guardo in basso e mi accorgo che il mio appoggio, quella umile terra, non si trova più così vicina, la vedo allontanarsi, farsi piccola, piccola, alzo lo sguardo e.. non c'è più. Il cavaliere senza cavallo e senza spada ma con una voce più forte di una tromba non è più davanti a me, al suo posto solo buio e qualche spietata nota di un Bach.


Dietro di me un pubblico fino allora assorto e invisibile batte le mani, il sipario si alza mostrando un Sébastien Tellier ancorato al palco che si inchina ripetutamente, gli occhiali in mano. Mi guarda, è un attimo ma colgo il suo ammiccamento. Si gira a presentare l'orchestra che si esibisce in un trionfante rock anni '80 e il mio stupore ritorna ad essere angoscia nello scoprire un plotone di musicisti che si scatenano follemente, tutti vestiti di bianco, tutti uguali tra loro ma ognuno con uno strumento diverso in mano, innumerevoli Sébastien Tellier.

Cochon Ville by Sébastien Tellier on Grooveshark

giovedì 24 maggio 2012

Beach House - Bloom

Beach House, Bloom,
Sub Pop, 2012
Conoscevo bene una sola canzone dei Midlake, Young Bride, ma l'intensità del pezzo bastava a giustificare la mia presenza tra zanzare e altri spettatori del concerto. Ero completamente impreparato per la serata ma riponevo grande fiducia nel gruppo e nella loro spalla, qualunque essa fosse, e forse questa predisposizione era ancora meglio del conoscere l'intero repertorio della band e rimanere poi deluso per l'assenza nella scaletta dei tredici brani preferiti. Fui sorpreso quando il gruppo si presentò sul palco, non tanto per l'elevato numero di elementi quanto per la spropositata incombenza delle chitarre: su sette musicisti, quattro ne avevano una a tracolla. Non fu l'unica sorpresa della serata, l'altra era stata precedente. Quelli che avrebbero dovuto essere delle comparse, degli intrattenitori in attesa del vero spettacolo si rivelarono essere i protagonisti. Conobbi così i Beach House.

La donna dai capelli scarmigliati si ergeva dietro la tastiera in mezzo al palco, mostrando di rado il volto coperto dalla lunga chioma, tanto da farmi inizialmente confondere riguardo il sesso e l'età; a incorniciare la scena in una simmetria che esaltava il profilo centrale, due uomini seduti, a sinistra la chitarra, a destra la batteria. La voce della donna aveva qualcosa di misterioso che si mischiava incredibilmente col suono sognante della chitarra. La batteria cadenzava ritmi ordinati e metricamente organizzati, donando vitalità alle drum machine dei dischi che riproponeva. Il suono travolgeva l'uomo alla chitarra, che autisticamente ne seguiva il ritmo con il corpo, e la donna alla tastiera, la cui criniera danzava sopra i tasti, mentre io sentii i brividi.

Ascoltando i Beach House è difficile credere si tratti di ragazzi o poco più. Le atmosfere che creano mostrano un'esperienza e una stanchezza propria di chi le ha vissute a lungo sulla propria pelle, le loro sono delle ninna nanne suonate in tarda notte per adulti malinconici e riflessivi. L'impassibilità dei ritmi elettronici contrastano con il calore della particolarissima ed elegante voce di Victoria Legrand, a tenerle insieme sono gli arpeggi e i contrappunti di Alex Scally, metodici e liquidamente melodiosi, che si trasformano in assoli mai sopra le righe ma che tornano a sottolineare quanto detto prima umanamente.
Con uno stile personale e inconfondibile, tinto di nostalgia e speranza, una tristezza mista a gioia, i Beach House raccontano il loro delicato universo, dove ogni brano appartiene ad un meraviglioso mosaico.

Wishes by Beach House on Grooveshark

giovedì 17 maggio 2012

The Men - Open your heart

The Men, Open your heart,
Sacred Bones, 2012
A leggere il titolo si potrebbe credere si tratti di una dichiarazione d'amore, un'implorevole richiesta di comprensione, un sospiro romantico neanche troppo originale. Ad ascoltare il disco, lo sdolcinato sussurro si rivela essere un comando splatter, un brutale ordine grondante sangue, sentimentalismo hardcore: apri il tuo cuore!

In pochi secondi i Men si presentano, mettendo in chiaro subito una cosa, che non sono come quegli altri, quello che ascolto abitualmente, "ma sì, gli altri Futquo qui sotto, noi non facciamo quella roba, noi siamo potenti, noi siamo rock!" Io mi trovo spiazzato, fino adesso nessun artista si era permesso di infilarsi tra le mie parole, ma i Men sono così, non si fanno mica troppi scrupoli e che tu lo voglia o meno ti lasciano il segno addosso. Le chitarre graffiano, ringhiano e ancora grattano, si sgretolano dando forma a vere e proprie cavalcate, in cui la voce interviene solo a suono compiuto, e anche se oppongo resistenza, le scalmanate corde insistono facendosi convincenti, spinte da un ritmo semplice e incisivo e tutto ciò che osservo viene avvolto dal suono, grezzo, sporco, riflessivo. Mi sento pervaso da una sensazione di distaccata superiorità, spinto in alto riesco a vedere tutto ciò che rimane sotto nella sua giusta misura, capire cosa funziona e cosa ha bisogno di essere sistemato, un senso di rivoluzione interiore mentre urla e distorsioni animano il mio adrenalinico viaggio purificatore.

Open your heart mi ha riportato alla prima volta che ascoltai i Sonic Youth: inconsapevole della potenza del materiale che mi trovavo nelle orecchie cercavo di riportare la loro musica dentro confini a me più consoni, non riuscendoci. Poco per volta cominciai ad aprirmi a quel mondo da me scarsamente considerato e dopo non troppo tempo il classico Daydream Nation divenne un punto di riferimento anche per me.
I Men hanno appreso la lezione dei Sonic Youth, e influenzati anche, ma in misura minore, da Buzzcocks e Pixies, ci danno adesso la loro versione, l'esasperazione del rock, la sua incantevole aggressività.

Oscillation by The Men on Grooveshark

venerdì 11 maggio 2012

Calibro 35 - Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

Calibro 35, Ogni riferimento a persone
esistenti o a fatti realmente accaduti
è puramente casuale
, Venus, 2012
Porsi volutamente dei limiti non significa compromettere il risultato, è anzi un ottimo metodo per ottenere effetti sorprendenti. Era la filosofia del gruppo letterario/matematico francese OuLiPo e grazie ad essa sono nate opere uniche e strabilianti, per il divertimento dei creatori e di tutti coloro che in seguito se le sarebbero trovate tra le mani. Il principio è molto semplice, davanti all'infinito universo di scelte si decide di restringere le proprie possibilità restando talvolta anche senza apparente margine di movimento e allora è lì che il genio, l'intuizione e la dedizione vengono premiate, sciogliendo un'enigma creduto insolubile. Creare uno schema per poterlo comprendere e infine governare. Gli appassionati di scacchi non si entusiasmano certo per le aperture, piuttosto per quelle incredibili pensate che nella loro complessità riescono a stravolgere la partita -il nero muove e matta il bianco in quattro mosse. E poi si sa, un gioco senza regole non diverte.

Non c'è da sorprendersi se i dischi dei Calibro 35 siano tematici, il gruppo stesso è una concept band! Il polizziottesco è il soggetto, e l'ostacolo, che si sono scelti e che riescono a raggirare con una capacità incredibile. Se il primo album era più un omaggio al genere, un'antologia di classici in cui si affacciavano due soli inediti, ora, al terzo tempo del loro lungometraggio hanno raccolto il testimone dei maestri presentando un album di materiale ampiamente originale in cui trovano spazio due sole degne cover, che non rubano assolutamente la scena agli altri pezzi ma con cui si mischiano perfettamente -se non mi fossi informato, non avrei capito quali fossero i rifacimenti!

Oltre ai quattro strepitosi musicisti è presente nel gruppo un quinto elemento il cui ruolo è ben più importante del già imprescindibile produttore, quello del regista. Tommaso Colliva è la mente del progetto, è colui che conosce il film poliziesco italiano anni '70/'80, che lo ama e che ha deciso di creare un tributo che andasse oltre alla semplice emulazione. Da una curiosa e bizzarra idea ne è venuto fuori una fucina di suoni acidi e funky che se da una parte ti fanno passare davanti agli occhi scene di sparatorie, corse con le pistole tra le mani, calze di nylon che nascondono teste di ceffi della peggior specie, colori grossolani, pantaloni a zampa, titoli di coda, ray-ban e folti basettoni, facce da duri circondate da ciuffi ribelli, giubbotti in pelle, e sangue, tanto tanto sangue, bum pam peng! dall'altra ti regalano colonne sonore di scene mai esistite, se non nella mente dell'ascoltatore e perciò vere.
Senza scadere in uno sterile manierismo, i Calibro 35 sono riusciti nel difficile compito di dare carisma a un progetto che nasce per riproporre ma che presto è andato ben oltre, reinventando un genere dato ormai per morto, dando valore più che alla composizione all'arrangiamento autentico, alla cura e all'evocazione completamente riuscita.

Probabilmente tutto questo non sarebbe stato possibile se non fosse stata presente una qualità fondamentale e basta leggere i titoli dei dischi e dei brani per accorgersi di quanto bene la maneggino, l'ironia.

La banda del B.B.Q. (Brooklyn, Bronx, Queens) by Calibro 35 on Grooveshark

mercoledì 2 maggio 2012

Daniel Rossen - Silent Hour / Golden Mile

Daniel Rossen, Silent Hour / Golden Mile,
Warp Record, 2012
Sono un ascoltatore di dischi. Quando mi dedico alla musica, se non suono, comincio dalla prima traccia e se devo interrompermi per un qualsiasi indesiderato motivo riprendo non appena possibile da dove ho lasciato. Rispetto le scalette volute dagli artisti, almeno fino a quando non conosco degnamente l'album, dopodiché mi concedo la funzione random o quella più personale di una playlist, mischiando raramente tra loro gli lp, perché sono più di una convenzione. Ogni disco, o quasi, è concepito come un pezzo unico da gustare integralmente, ogni album ha un sapore personale, una storia che comincia dal primo pezzo e si conclude con l'ultimo seguito assai spesso da bonus track, regali un tempo inaspettati ma oggi esageratamente desiderati soprattutto nelle riproposte a discapito della compattezza del suono dell'insieme. Mi è difficile ascoltare un singolo brano, mi richiede un tempo mediamente troppo breve per entrare nel giusto stato d'animo, il risultato è che seppure esistono dei pezzi favoriti, questi si portano dietro i loro compagni nel momento in cui decido di assaporarli per un'ennesima volta. La mia venerazione per il formato musicale lungo mi porta naturalmente a disprezzare quei pezzacci riempi posto inseriti con l'unico fine di ottenere uno zoppicante raggiungimento della durata minima affinché il prodotto possa considerarsi album e con il conseguente danneggiamento di pezzi veramente validi, espediente comunque troppo rischioso da adottare nel circuito di "musica indipendente" vista la maggiore attenzione dedicata ad essa dai suoi ascoltatori e dato lo scarso passaggio di singoli pezzi in radio e televisione, che potrebbero oscurare i brani più deboli dello stesso album.

Un EP è un invito, un assaggio di quello che potrebbe essere un lavoro superiore, più complesso e più completo. Un ibrido, tra canzone e disco, una forma che io conosco molto poco ma che non ho esitato un istante ad affrontare quando ho scoperto del debutto di Daniel Rossen, una delle voci e chitarra di Grizzly Bear e Department of Eagles. I richiami ai suoi due gruppi sono molteplici, talvolta sembra perfino di ascoltare dei passaggi di uno o dell'altro gruppo, e non perché le tracce suonano banali o già sentite, ma perché la composizione di Daniel Rossen è particolare, inconfondibile, come il timbro del suo canto, tagliente e belatamente deciso. Gli arrangiamenti appaiono qui meno sfarzosi rispetto agli altri lavori, le numerose chitarre mostrano un approccio più spontaneo e istintivo, ma le melodie restano sempre spigolosamente attiranti. La gamma di emozioni è egregiamente colorata, passando da momenti tranquilli e carezzevoli a episodi energici, muovendosi tra sentieri ora introspettivi ora spensierati, sfociando infine in meravigliosi ritornelli dal rapido e sempreverde effetto.
Avrebbe potuto gonfiarlo, infilare qua e là stralci di canzoni strappate dalle incisioni che ogni artista si porta dietro, eppure Daniel Rossen non ha voluto farlo, nonostante la consistenza dell'album fosse già presente in questi 23 minuti di  registrazione, e gli sono grato per aver lasciato la sua opera essenziale ma comunque intensa. Forse ha voluto solo provare a mettere fuori la testa dai suoi due gruppi, umilmente, vedendo come il resto del mondo avrebbe reagito, prima di presentarsi con un vero e proprio debutto. In attesa del nuovo album dei Grizzly Bear per cui questi brani erano stati inizialmente composti, mi godo ripetutamente l'invito di Daniel.

Golden Mile by Daniel Rossen on Grooveshark