lunedì 27 febbraio 2012

Leonard Cohen - Old Ideas

Leonard Cohen, Old ideas,
Columbia, 2012
Assorto dai pensieri non mi sono accorto che i passi mi hanno spinto in posti a me ignoti. Il cielo si sta rapidamente coprendo di grigie nuvole, e non avendo parapioggia né sapendo dove dirigermi, decido di rifugiarmi nel pub che scorgo poco più avanti, a chiarirmi le idee. Il locale è avvolto dalla penombra, ad una prima occhiata appare vuoto, ma una volta abituato all'oscurità oltre all'uomo pacificamente indaffarato dietro al bancone intravedo altre sagome all'interno della stanza. Tutto intorno ha un'aria decadente, antiquata, gli assi di legno che ricoprono la parete sembra sudino un'esistenza troppo trascurata, i cigolii del pavimento ad ogni mio movimento non sembrano naturali, ma mi permettono di raggiungere il tavolo più lontano dalla porta, dove mi siedo in attesa che qualcuno venga a prendere la mia ordinazione, cosa che non avviene. Da quando ho messo piede in questo anacronistico saloon, l'uomo dietro al bancone continua ad asciugare ripetutamente lo stesso bicchiere, come se anche lui appartenesse ad un altro tempo, bloccato in quella curiosa attività che è il rendere secco qualcosa che per natura dev'essere bagnato. Guardingo, esamino l'ambiente in cui mi trovo, quando il mio sguardo inciampa sulla figura di fronte a me, a due tavoli di distanza. Il suo aspetto è coerente con tutto ciò che mi circonda, i vestiti da elegante becchino, il borsalino appoggiato di fianco a quello che può essere un bicchiere di whiskey, la sua innaturale posizione, con la schiena curva sul braccio che regge il mento. Ho come l'impressione che stia contemplando qualcosa in fondo al drink, non appena mi chiedo cosa possa essere, noto alle sue spalle una grande custodia di cuoio nero che verosimilmente deve contenere una chitarra. Ho cominciato ad osservarlo da poco quando pacatamente si alza e si incammina nella mia direzione, venendo a sedersi proprio davanti a me. La mia diffidenza, tenuta fino ad allora sotto controllo, sta prendendo il sopravvento, accompagnata dall'annunciata seccatura di dover intraprendere un discorso con quel bizzarro vecchio, ma non appena apre la bocca capisco che non è venuto per una conversazione con me, vuole raccontarmi qualcosa, e così, con un rauco sussurro comincia la sua storia.
Porgo l'orecchio, incuriosito dal suono cavernoso della sua voce, consumata dal fumo e dalla vita, carica di pathos, e nonostante non capisca del tutto cosa voglia dirmi, sento che le sue parole raggiungono il mio animo, mi sento riscaldato dalla sua leggera modulazione, riappacificato dalla calma che mi trasmette. Parla proprio con me, anche se mi sento più un pretesto per il suo monolgo, sono il suo tu generico, e mentre cerco di afferrare i suoi messaggi, intorno a noi si sono raccolti gli altri presenti, alle spalle del vecchio ci sono adesso tre donne, non troppo giovani ma delle bambine al suo confronto e cantano, intonano dei cori che rendono ancora più penetrante la storia. Il barista non ha smesso di asciugare il bicchiere ma adesso è assorto dal racconto, forse è per questo che non mi ha ancora chiesto cosa voglia bere, ma è meglio così, preferisco ubriacarmi delle parole e dell'atmosfera sognante. Fuori ha cominciato a diluviare, o magari il sole ha vinto la sua battaglia contro le nuvole, ma qui dentro non importa. Da qualche parte arriva della musica, forse anch'essa esce dalla sua bocca, perché anche lei ha i toni miti e rassicuranti della sua voce. Il vecchio è sincero, la partecipazione è tanta che sembra stia pregando, che si rivolga ad un ipotetico dio più che ad uno sconosciuto.
Eppure Leonard sta parlando a me.

lunedì 20 febbraio 2012

of Montreal - Paralytic Stalks

of Montreal, Paralytic Stalks,
Polyvinil, 2012
Chiedi a un bambino di cantare una canzone, di inventarla su due piedi. Se non diventa rosso dall'imbarazzo cercando con occhiate furtive un rifugio nei paraggi, è probabile che comincerà ad arzigogolare un ingenuo e variegato lalala, che non rispetta alcuna struttura, anzi, in vista di un prevedibile risvolto, volutamente esce dagli schemi illudendosi di mostrare una certa maestria. O almeno, così avrei fatto io, e così feci quando se ne presentò l'occasione. Kevin Barnes sembra non essere mai uscito da quello stadio infantile, le sue melodie sono spesso sregolate, imprevedibili e in quest'ultimo lavoro si fa più evidente la sua ossessione a non compiacere l'ascoltatore, e così quando hai già cominciato a canticchiare un simpatico motivetto, pam! lui te lo stravolge, costringendoti a ricominciare da capo. Dopo numerosi ascolti ancora non riesco a entrare nello spirito dell'album, c'è qualcosa che non riesco a cogliere.
Il disco è un caleidoscopio di suoni e atmosfere, un frullato di generi, che sfugge da ogni catalogazione rientrando in quello tipico degli of Montreal, uno stile da sempre colorato, ma ora le tinte si fanno più opache, stanche, delle appariscenti pennellate gettate distrattamente.

Se nella prima parte dell'opera ci si ritrova sommersi da numerose intuizioni, idee accennate e solo raramente sviluppate, sorprendenti e destabilizzanti cambi di rotta, nella seconda si è scaraventati in un vortice di assenza. A metà del settimo pezzo, dopo aver toccato il rock, la bossa nova, il noise, la dance, la psichedelia, solo per citarne alcuni, la giostra si interrompe per lasciare un enorme spazio ad una serie di suoni e rumori indefiniti, una lunghissima bonus track alternata a pochi momenti di respiro che scorre fino alla fine, per quasi venti minuti, terminando con quella che avrebbe dovuto essere il vero -e unico- pezzo in più, un intimo voce e piano. Si potrebbe parlare di sperimentale, di concettuale ma in qualsiasi modo lo si giustifichi, ci sono interi minuti di incomprensibile fastidio. Sembra che il gruppo urli il suo disperato grido di sofferenza, mostrando il tormentato animo che la giocosa maschera nasconde.
Già in passato si era intravisto questo aspetto più cupo. Nell'allegro The sunlandic twins, verso il finale sono presenti degli angosciati toni di noia, ma il seguente Hissing fauna, are you the destroyer? aveva scacciato ogni demone, riuscendo ad incanalare nel verso giusto anche i lati più oscuri e donando agli of Montreal un album superlativo.
Forse il problema di Paralytic Stalks risiede nel suo concepimento casalingo, dove l'artefice è rimasto isolato nel suo mondo, senza permettere ad altri di farne parte. Forse sarebbe bastato ripulirlo un po', alla luce del sole, ma così non avremmo potuto godere dei versi alcolizzati, quasi esasperati ruggiti, di Spiteful Interventation, o di quelle cinque note in croce da brividi del pianoforte in Wintered Debts, o dei falsetti beegeesiani di Dour Percentage o.. forse sì.

lunedì 13 febbraio 2012

AIR - Le voyage dans la lune

AIR, Le voyage dans la lune,
Astralwerks, 2012
A guardarli oggi quei muti omini in bianco e nero sembrano buffi, impacciati nei loro irreali movimenti, rallentati dalla vecchiaia della pellicola, eppure un secolo fa l'effetto doveva essere diverso. Nasceva il cinema, e seppure fosse ben lontano dal rappresentare la realtà come si potrebbe esigere al nostro tempo, la settima arte riusciva già a far sognare la gente, e se adesso ci si entusiasma nel guardare grossi mostri blu che ti volano sopra la testa in un film 3D, la stessa strabiliante sensazione doveva toccare gli spettatori dell'innovativo Le voyage dans la lune di George Méliès. Era il 1902, i fratelli Lumière avevano presentato al mondo il loro cinématographe meno di sei anni prima. Distribuito ai quattro angoli della Terra con il più anglofono A trip to the moon, il breve -se comparato a quelli odierni- film si impose fin da subito come rivoluzionario ottenendo un successo planetario. L'introduzione di effetti speciali e il tema trattato rendono Il viaggio sulla luna la prima pellicola di fantascienza, nonché il primo film di finzione.
A fianco di quella in bianco e nero, era stata prodotta anche un'altra versione, colorata a mano, rimasta persa per troppo tempo fino al suo ritrovamento, in condizioni pietose. Alla fine degli anni '90 cominciano i lavori di restauro, terminati solo nel 2010. Il film è salvo, e l'anno dopo è finalmente pronto per mostrarsi agli occhi dei nuovi spettatori, di 109 anni più anziani. Manca però un dettaglio.
Da sempre, ad accompagnare i film muti si esibiscono dei musicisti, e per coronare il gioiello francese, in un ostentato orgoglio nazionale vengono assoldati loro, gli AIR, che per l'occasione ritornano a musicare delle immagini. Un decennio fa il duo si trovava a tradurre in musica l'inquietante dramma delle vergini suicide, e se né il film né il libro a cui si erano ispirati mi avevano oltremodo appassionato, The virgin suicides, mi aveva coinvolto incredibilmente, diventando uno dei due album da me preferiti del gruppo. L'altro è Premiers Symptômes, altro album anomalo, trattasi infatti di un EP. Gli AIR sono così, danno vita a belle canzoni, ma gli album sono spesso disordinati, confusi, risultando più una compilation che un vero e proprio disco. Non c'è da stupirsi se quindi i lavori più riusciti non sono quelli "ufficiali".

Con Le voyage dans la lune Godin e Dunckel partono in vantaggio, dovendo giocare con atmosfere spaziali e immagini psichedeliche. Se il film dura solo 14 minuti, l'album è stato allungato con nuovi episodi, tra cui due brani cantati da noti ospiti -Victoria Legrand dei Beach House e le Au Revoir Simone- e rimuovendo inspiegabilmente una divertente parte della colonna sonora, riuscendo a collezionare ben.. 31 minuti! (Stiamo sempre parlando di un gruppo i cui concerti durano addirittura 50 minuti e il bis non sempre è assicurato).
Dai primi timpani premonitori dell'avventura ai futuristici suoni finali, l'album scorre senza intoppi, amalgamando diversi stati d'animo, ma tenendo sempre la mente rivolta al cielo, allo spazio. Ogni movimento è ben legato all'altro, tanto da far sembrare naturale il passaggio da un brevissimo intermezzo debussyano a un energico trionfo elettronico. Nella musica non è presente la connotazione parodistica evidente nell'opera di Méliès, elemento che altri forse avrebbero approfondito, ma le scelte dei due compositori restano largamente condivisibili.
Slegando il lavoro da un uso prettamente cinematografico, gli AIR ci presentano il loro nuovo lavoro, più vicino ai declamati esordi e ad una forma a loro più affine, quella della suggestione.
Un piccolo mondo, diverso da questo, da ascoltare rintanati sotto le coperte, con le luci spente, e gli occhi chiusi.

Parade by Air on Grooveshark

lunedì 6 febbraio 2012

Destroyer - Kaputt

Destroyer, Kaputt, Merge, 2011
Era primavera, adesso è inverno.
Da un altro pianeta, un altro tempo, che potrebbero ricordare i terrestri anni '80, arrivano le note di sassofoni e trombe. Viaggiano da una canzone all'altra, creano un lungo notturno, sostenute da un deciso cassa-rullante e sfuggenti sintetizzatori, avvolgono la spigolosa voce di Den Bejar.

Di giorno, potrebbero esserci le nuvole, ma il momento più adatto è la notte, la pioggia, i fari, i marciapiedi, un'immagine abusata, ma la musica è la che mi spinge, qualche anno indietro. Un'odissea metropolitana, a testa china, la sciarpa che copre il volto, le mani in tasca, il passo svelto, il pensiero altrove, avanti, una sirena in lontananza e le prime luci del mattino. O anche un risveglio.

Non bisogna lasciarsi ingannare dall'apparenza, Destroyer è un gruppo, ma si tratta di un cantautore, il prolifico Den Bejar, già colonna dei New Pornographers, e da un pezzo anima del gruppo canadese. Dopo tanti anni che mi dedico all'ascolto di suoni ho finalmente capito grazie a lui cosa voglia dire songwriting, cosa differenzi una creatura di un cantautore da una canzone, perché non sono la stessa cosa, nemmeno da un punto di vista strettamente musicale. Songwriting significa interpretazione, e in Kaputt le melodie sono spesso parlate, sussurrate, talvolta recitate, come già eravamo stati abituati dai precedenti dischi, ma qui c'è dell'altro e nonostante le sue atmosfere datate c'è un mondo nuovo. Oltre a quella del cantante, c'è un'altra voce che arriva alle orecchie, quella del sassofono, che in piena forma ritrova qui tutta la sua potenza espressiva, mostrando il calore e la sensualità che solo questo strumento sa dare. Che sia in primo piano o in sottofondo, compare di continuo, senza timidezza e senza irruenza, con stile.
Un disco da assaporare, più e più volte. Da soli, e in compagnia, comunque in intimità.

Song for America by Destroyer on Grooveshark