Flying Lotus, Until the Quiet Comes, Warp, 2012 |
Rosso intenso. Un rosso vermiglio, di quelli che sgocciolano densi, al rallentatore, si allunga verso il basso, stirando il proprio colore senza intaccarne lo splendore, e poi si lancia placidamente verso il suolo, fino a sbatterci sopra, ma con dolcezza, spargendosi tutt'intorno. Un'altra goccia si affaccia timidamente dall'alto, come per vedere cosa sia successo, lentamente si protende verso di me per poi abbandonarsi in una caduta silenziosa, raggiungendo le tante macchie che già popolano il pavimento. Da sotto il tavolo non capisco la provenienza delle lacrime che mi piovono davanti, mi lancio quindi nella macabra ipotesi di un polso aperto appoggiato sulla superficie lignea, sommerso nel sangue che gli scorreva dentro e che scivola ora verso il bordo. Osservo i rossi rivoli che si vanno a creare di fianco ai miei piedi ed escludo la congettura appena formulata a favore di un più probabile rovesciamento della boccetta dell'inchiostro, che dimentico dei fogli traccia adesso incomprensibili disegni per terra, animato dal desiderio di comunicarmi qualcosa. Senza nessuna stilografica che lo guidi lo vedo muoversi confuso e indeciso sulle direzioni da prendere, eppure sono sicuro che stia seguendo un percorso, forse un istinto. Attendo.
Un sapore trip-hop in sfrigolature acid dalle sfumature free jazz e intenzioni dubstep, se solo sapessi cosa voglia dire. Ci potrei aggiungere l'atmosfera ambient e l'atteggiamento lounge, sorretti da impalcature elettroniche. Una martellante sofferenza ricopre delle lande desolate evocate dai suoni alienati e irregolari, e in mezzo alla confusione e all'irrequietezza percepisco il dolore, quello della solitudine. Un solo colore, il rosso, opaco e intenso, è quello che la mente mi offre mentre ascolto Flying Lotus, e per quanto io mi sforzi a cercare altre tonalità l'immaginazione torna sempre alla sua prima impressione, così intensa e definita, spaventosamente nitida. Le voci degli ospiti che di tanto in tanto compaiono nel disco non spezzano la catena di suoni, pennellate musicali che ritraggono un disordine ossessionato dalla sua stessa natura, ma anzi entrano in simbiosi con essi, e la loro evocazione musicale prevale su quella lirica. Melodie sgrammaticate, interrotte e riprese, abbozzate e dimenticate, Steven Ellison non si cura di compiacere l'ascoltatore o di assecondare il suo desiderio di voler riascoltare qualcosa di già sentito, e allora ecco che la sua musica intraprende direzioni sempre impreviste, eppure dalla prima all'ultima traccia si intuisce l'appartenenza ad un contesto, in cui ad ogni brano è affidata una parte del disegno complessivo. Si coglie una ragione, la cui interpretazione talvolta passa anche solo per un colore.
Rosso, dappertutto.