venerdì 23 novembre 2012

Flying Lotus - Until the Quiet Comes

Flying Lotus, Until the Quiet Comes,
Warp, 2012
Rosso intenso. Un rosso vermiglio, di quelli che sgocciolano densi, al rallentatore, si allunga verso il basso, stirando il proprio colore senza intaccarne lo splendore, e poi si lancia placidamente verso il suolo, fino a sbatterci sopra, ma con dolcezza, spargendosi tutt'intorno. Un'altra goccia si affaccia timidamente dall'alto, come per vedere cosa sia successo, lentamente si protende verso di me per poi abbandonarsi in una caduta silenziosa, raggiungendo le tante macchie che già popolano il pavimento. Da sotto il tavolo non capisco la provenienza delle lacrime che mi piovono davanti, mi lancio quindi nella macabra ipotesi di un polso aperto appoggiato sulla superficie lignea, sommerso nel sangue che gli scorreva dentro e che scivola ora verso il bordo. Osservo i rossi rivoli che si vanno a creare di fianco ai miei piedi ed escludo la congettura appena formulata a favore di un più probabile rovesciamento della boccetta dell'inchiostro, che dimentico dei fogli traccia adesso incomprensibili disegni per terra, animato dal desiderio di comunicarmi qualcosa. Senza nessuna stilografica che lo guidi lo vedo muoversi confuso e indeciso sulle direzioni da prendere, eppure sono sicuro che stia seguendo un percorso, forse un istinto. Attendo.

Un sapore trip-hop in sfrigolature acid dalle sfumature free jazz e intenzioni dubstep, se solo sapessi cosa voglia dire. Ci potrei aggiungere l'atmosfera ambient e l'atteggiamento lounge, sorretti da impalcature elettroniche. Una martellante sofferenza ricopre delle lande desolate evocate dai suoni alienati e irregolari, e in mezzo alla confusione e all'irrequietezza percepisco il dolore, quello della solitudine. Un solo colore, il rosso, opaco e intenso, è quello che la mente mi offre mentre ascolto Flying Lotus, e per quanto io mi sforzi a cercare altre tonalità l'immaginazione torna sempre alla sua prima impressione, così intensa e definita, spaventosamente nitida. Le voci degli ospiti che di tanto in tanto compaiono nel disco non spezzano la catena di suoni, pennellate musicali che ritraggono un disordine ossessionato dalla sua stessa natura, ma anzi entrano in simbiosi con essi, e la loro evocazione musicale prevale su quella lirica. Melodie sgrammaticate, interrotte e riprese, abbozzate e dimenticate, Steven Ellison non si cura di compiacere l'ascoltatore o di assecondare il suo desiderio di voler riascoltare qualcosa di già sentito, e allora ecco che la sua musica intraprende direzioni sempre impreviste, eppure dalla prima all'ultima traccia si intuisce l'appartenenza ad un contesto, in cui ad ogni brano è affidata una parte del disegno complessivo. Si coglie una ragione, la cui interpretazione talvolta passa anche solo per un colore.

Rosso, dappertutto.

The Nightcaller by Flying Lotus on Grooveshark

sabato 17 novembre 2012

The Raveonettes - Observator

The Raveonettes, Observator,
Vice Records, 2012
Quando ero piccolo, molto piccolo, ero convinto che "la canzone" fosse stata inventata da un preciso gruppo nei lontani anni '60, e quando dico "la canzone" non intendo un pezzo che mi entusiasmi particolarmente, ma proprio il "formato canzone", un brano musicale cantato di tre minuti. Forse nella mia ingenuità credevo davvero che prima del '62 a nessuno fosse venuto in mente di usare la voce come strumento e le parole come supporto, o addirittura che prima di allora non esistesse l'idea di musica -terribile pensiero. Ovviamente non troppo tardi mi accorsi che i Beatles, così si chiamava il gruppo che mi trasse in inganno, non erano altro che un episodio neanche troppo originale di un certo momento storico musicale, che tanti avevano preceduto e altrettanti avrebbero seguito. Il potere del marketing e della sua banalizzazione erano però riusciti a ridurre la storia della musica in pochi nomi -Beatles, Elvis, Michael Jackson (...)- e dal momento che quelli di Liverpool erano i più anziani pensavo che a loro si dovesse il prodigio della musica. Poi crebbi, e seppure mi accorsi di essere stato vittima di un tranello ci ricaddi nuovamente: qualcuno mi disse che il rock'n'roll, quello che in questa seconda fase della mia vita credevo essere il primo genere della musica moderna, nacque nel '54 con la registrazione di Rock around the clock di Bill Haley & His Comets. Le nozioni sono così tranquillizzanti, permettono di ridurre ogni complessità in poche date, e il 20 maggio 1954 fu quella che mi permise di liquidare la faccenda musicale. Eppure non ero soddisfatto, in fondo non avevo fatto altro che anticipare di otto anni la certezza precedente, e mi venne il dubbio che forse avrei potuto spingermi ancora indietro, e poi ancora, e ancora.. quando venni a sapere che O sole mio era stata composta addirittura nel diciannovesimo secolo, finalmente capii che il fenomeno della canzone è qualcosa che accompagna gli uomini forse da sempre, da quando riunendoci intorno a un fuoco abbiamo cominciato a pestare dei bastoni sulle pietre e a far uscire dei suoni dalla bocca.

I tempi cambiano, gli strumenti pure, ma la necessità e la voglia di cantare restano.
La canzone è il mezzo più immediato per arrivare all'ascoltatore, senza spaventarlo e offrendogli una gamma di sentimenti incredibili nonostante il limite imposti dalla breve durata e dall'eterno susseguirsi di strofa e ritornello, eventualmente ponte. I Raveonettes sono fedeli alla Canzone, e armati solo dello stretto necessario, riducendo al midollo ogni possibile tecnicismo e alzando al massimo i riverberi e le distorsioni in sottofondo, offrono un breve compendio di cosa voglia dire fare canzoni oggi. Sono consapevoli di appartenere a un'epoca, non hanno la pretesa di fare qualcosa che la sovrasti, ma la raccontano. Testimoni del presente, sfruttano abilmente l'essenza indie proponendone le atmosfere, appoggiandosi su chitarre che si rincorrono lanciandosi in note cadenzate e arpeggi monotonamente ossessivi, pianoforti meditabondi e angosciati, batterie forti e penetranti. Semplici riff che ripetono il tema principale, cori abbozzati, duetti improvvisati e una trasandatezza di fondo, col suono sporco ed elettrico a evidenziare ogni imprecisione piuttosto che a nasconderla.
Cultori della regola dei tre accordi, raramente in un brano si spingono oltre e quando lo fanno l'impressione della semplicità e dell'immediatezza resta comunque.

Oggi non faccio più l'errore di un tempo, e anche se è vero che i Raveonettes non hanno inventato nulla di nuovo, comunque lo sanno fare bene.

Curse the Night by The Raveonettes on Grooveshark

venerdì 9 novembre 2012

Zammuto - Zammuto

Zammuto, Zammuto,
Temporary Residence Ltd., 2012
Mi è successo un'altra volta. Attirato dalla rotondità del suono non potevo immaginare che dietro il progetto Zammuto si nascondesse un uomo, che di nome fa Nick, di cognome Zammuto. I cognomi e il loro essere ormai ridotti ad ammassi letterali privi di senso mi attraggono più di quanto voglia ammettere. Zammuto, un cognome, un nome o un gruppo, ma fin dall'incipit mi accorgo essere una sigla col semplice compito di designare il self-titled, e la creatura che racchiude.

Un clima asettico, sterilizzato al fine di compiere una sofisticata operazione, il delicato passaggio da materia a vita. Nessuno zombie, non si riporta sulla terra alcun essere deformato dalla morte, tutto il contrario. Il progresso ha raggiunto un punto di svolta, la tecnologia si sveglia, i computer acquistano coscienza. Automi ancora legati nei loro movimenti iniziano a prendere confidenza con la loro nuova natura, ci viene presentato l'incredibile e misterioso passaggio da macchine ad animali.
La differenza che ha sempre distinto gli uomini dagli altri abitanti del pianeta è l'intelligenza, la capacità di adattamento alle circostanze e di memorizzazione attraverso la collettività, l'umanità appunto, ed è stato ciò che ci ha permesso di arrivare a sistemi complessi e sovrastrutturati come quelli che popoliamo e immaginiamo. Sono dell'idea che a un certo punto dell'evoluzione sia successa una cosa straordinaria alla nostra mente e alla percezione che abbiamo di noi stessi. L'incessante e naturale avanzata verso l'ignoto ha dovuto trovare una giustificazione razionale, ed affinché il nostro desiderio di comprensione riuscisse a concepire l'infinito e l'infinitesimo, il tutto, siamo giunti ad ingannarci, assegnando al nostro corpo e ai nostri impulsi nervosi una natura metafisica, che andasse oltre alle capacità che disponiamo: l'invenzione dell'anima e della consapevolezza che ne deriva.

Non tanto i suoni, ché in ogni prodotto elettronico o sperimentale ce ne sono di particolari, né le voci asessuate, rese innaturali dalle plurime distorsioni, sono state la ragione di queste riflessioni, piuttosto l'approccio che Zammuto porta verso la musica mi dà l'impressione che la sua opera sia la testimonianza di questo salto, del raggiungimento di una consapevolezza, che possa essere di tipo antropologico o anche solo personale, la conquista di un nuovo sé, una rigenerazione.
Un disco da penetrare nei suoi oscuri meandri, di difficile fruizione, ma anche qui non per la "poca musicalità" o per la "troppo contemporaneità", quanto per la sua espressione, decisamente diversa dall'usuale concezione di canzone -che comunque ad essa si rifà, tanto che mi è capitato di canticchiare l'improbabile vocalizzo di Yay, ridotto a uno spastico motivetto- e che arriva a toccare aspetti spesso trascurati della nostra persona.
Del nostro automa.

Zebra Butt by Zammuto on Grooveshark

sabato 3 novembre 2012

Efterklang - Piramida

Efterklang, Piramida,
4AD, 2012
Spengo la luce perché al buio è l'immaginazione a illuminare.
Giorno e notte si annullano, il nero artificiale e claustrofobico di una stanza senza finestre ha preso il loro posto. Apro e chiudo gli occhi per assicurarmi che non siano le palpebre ad impedirmi di vedere, ma non cambia nulla, una terribile assenza mi si stende di fronte. In ogni direzione un nero sconfinato accoglie i miei sguardi, e se con la mano cerco l'interruttore che ho premuto poco prima, non lo faccio per azionarlo, ma solo per mostrarmi di non essere sprofondato realmente in questo non-luogo. La mia ragione vuole sapere di avere la possibilità di tornare indietro. Discretamente, come per non denunciare una certa inquietudine, allungo le dita verso la parete, e nel momento in cui mi aspetto di trovare l'oggetto della mia ricerca, perdo l'equilibrio, e nessuna parete raccoglie le mie esitazioni, anche qui, il nero ha preso il loro posto. Colto da un'improvvisa disperazione agito le braccia in maniera scoordinata, senza pensare che in questo modo alimento solo le mie paure, ma devo trovare quel pulsante, schiacciarlo, tornare dove mi trovavo! Inutilmente le mie mani si aggirano da ogni parte, e dopo aver realizzato che intorno a me non c'è più nulla -l'avevo già intuito, non volevo accettarlo-, decido di respirare profondamente e chiudo gli occhi, senza provocare nessun apparente cambiamento alla realtà che mi circonda, ma adesso non c'è più la ragione a distrarmi. Solo in questo momento mi accorgo di come la causa della mia cecità non fosse il vuoto, ma la vista stessa. Mi concentro sulle impressioni, le sensazioni che la situazione mi offre, affidandomi agli altri sensi, noti e ignoti.

Mi muovo, inizialmente procedo a tentoni cercando di non sbilanciarmi troppo ad ogni passo che faccio, ma presto mi affido all'istinto, e ogni volta che inciampo, mi rialzo e ricomincio a vagare senza meta, deciso a raggiungerla. Non mi ero ancora reso conto del leggero odore di pesca, o forse melone, che si respira, annuso più forte, decisamente pesca. Cammino senza curarmi di avere una postura corretta, seguendo una direzione indefinita e delicatamente irrazionale. Ho perso la concezione del tempo, concetto che in questo spazio ha perso valore, come le proporzioni.
Lentamente sento avvicinarsi dei suoni, sospiri strumentali provenienti da ogni dove che giungono fino alle mie orecchie. Delle voci sovrumane, troppo umane, la cui intensità è monumentalizzata dalla quiete dei suoni su cui poggiano, si mischiano alle orchestrazioni che si vanno costruendo. Una presenza sonora ancora più acuta del buio che ho sconfitto mi sta assorbendo. Apro gli occhi e scopro una moltitudine sconfinata di suoni scorrere placidi, lasciano scie infinite da ripercorrere in un'altra forma, volteggiano e fluttuano come fosse la cosa più naturale. Riconosco tra loro voci e note, avverto echi e atmosfere, ma è difficile individuarle, si scompongono e si riformano in nuove creature, senza però alterare l'insieme, limpido.
Porto le mani al volto per avere conferma, le mie palpebre sono ancora abbassate.

The Ghost by Efterklang on Grooveshark