venerdì 20 luglio 2012

The Beach Boys - That's why God made the Radio

The Beach Boys, That's why God made
the Radio
, Capitol Records, 2012
Dei supporti musicali, alla mia infanzia è toccato il peggiore, la cassetta.
Udivo distrattamente intorno a me nostalgiche voci d'ogni età decantare lo splendore dell'era lp, dove il suono analogico era vivo e il formato elegante (voci insistenti o radicalmente vere se perfino oggi mi capita di incontrare ragazzi più giovani di me che pensano la stessa cosa), mentre tra le mani avevo un bizzarro oggetto con due buchini, e un nastro che se provavi ad avvolgerti intorno al dito poi all'ascolto successivo avresti sentito i musicisti lamentarsi per un'improvvisa e non voluta interruzione, dopodiché la canzone era persa per sempre. Tra le altre cose, la cassetta aveva un grande limite, inconcepibile nell'era mp3 eppure di grande familiarità fino a poco più di dieci anni fa: non potevi scegliere la canzone, o meglio, potevi cercare di acchiapparla alternando un REW a un FF, ma dovevi essere davvero deciso a volerla recuperare, e il più delle volte finiva che ti accontentavi di ascoltarla già iniziata, oppure -come facevo io- di ascoltare gli ultimi 20/30 secondi della canzone precedente.

C'era una cassetta, rubata a qualche fratello, che ascoltavo ripetutamente, senza tirare avanti o indietro alcun pezzo, ma rispettando l'ordine che le era stato dato, e anzi, considerandola quasi come un'unica canzone. Ogni volta che l'avevo nelle orecchie era una gioia, mi sentivo sopra a tutto, e immaginavo di andare in bicicletta, sentire il vento tra i capelli e pedalare verso il sole che si nascondeva dietro il mare. Mi dava energia, e forse l'immaginarsi in bicicletta a pedalare grintosamente era un modo come un altro di un ottenne per esaltarsi. Quella cassetta, o meglio il suo lato A, è stato il mio primo contatto con i Beach Boys. I get around, Fun fun fun, California Girls, Good vibrations (..) erano un concentrato di allegria e trionfo, di eterno ottimismo, e io l'ho amavo. Poi un giorno girai la cassetta, forse solo per curiosità, a me bastava il primo lato, era già enorme il mondo che mi dava. Scoprii con stupore che c'era un altro aspetto nella musica dei Beach Boys, più introverso e intimo. Wouldn't it be nice, Heroes and Villains, Darlin', Break away (..) mi mostrarono una nuova dimensione, e fu l'inizio di un amore che non si è più interrotto. Sono cresciuto ascoltando musica di trenta, quarant'anni prima e mentre mi facevo grande, la storia dei Beach Boys mi scorreva nelle orecchie. All'esuberante e spensierato surf iniziale seguì la ricerca del suono perfetto, melodie e armonizzazioni che si rivolgevano direttamente a dio, pazzie di un genio troppo fragile. Alle immagini solari degli otto anni si sostituirono quelle più cupe e travagliate dei quindici, e l'autore era sempre lui, Brian Wilson.

Ho esitato ad ascoltare il nuovo disco dei Beach Boys, cercavo un continuo pretesto per distogliere l'attenzione dall'evento. Fino a due anni fa un disco del genere sarebbe stato impensabile, tanto che i Boys, ormai trasformatisi in arzilli vecchietti, erano divisi in tre gruppi diversi, ognuno dei quali portava in scena materiale del gruppo e non intendeva compromessi con gli altri. Ma poi, giunse l'anniversario. Il gruppo compie 50 anni, nuovo disco con quello che è rimasto della band riunita e tour mondiale! La paura di una mossa commerciale dichiarata mi creava non pochi disagi a prendere in mano il disco, timoroso di una colossale delusione di quelli che furono e continuano ad essere tra i miei eroi.
Sentirli di nuovo tutti insieme, le loro voci che si mescolano in armonizzazioni e coretti à la Beach Boys è la prima cosa che attira l'attenzione, e si è troppo concentrati a riconoscere i timbri per poter badare alle melodie, che a un primo ascolto sfilano innocue, non catturano ma allo stesso tempo non disturbano e ti fanno tirare un sospiro di sollievo "almeno, non è brutto". Poi si prova ad ascoltarlo, come fosse un album e non una reliquia, e ci si accorge che contiene dei grandi pezzi, belli e intensi, il cui marchio Brian Wilson vi è impresso forte, e le voci del gruppo si alternano con un'intesa tipica di quello che è stato un tempo, e a quanto pare, è ancora. Nessun tentativo di riproporre vecchi ritornelli, il surf e le belle ragazze appartengono al passato, così come il buio e l'angoscia. Quello che resta è la consapevolezza per ciò che si ha vissuto, gioia e spensieratezza, ma anche intimità e malinconia, e la maturità di saperlo rielaborare.
A volte, è giusto fermarsi, per restare sempre nei cuori dei fan. Non in questo caso.

Isn't It Time by The Beach Boys - www.musicasparabaixar.org on Grooveshark

From There To Back Again by The Beach Boys - www.musicasparabaixar.org on Grooveshark

mercoledì 11 luglio 2012

Guided by Voices - Class Clown Spots a UFO

Guided by Voices, Class Clown Spots a UFO,
Guided by Voices Inc., 2012
Quando un artista può dirsi soddisfatto delle sue creature? Probabilmente dipende dalle sue ambizioni. Supponiamo allora che si voglia creare l'opera più bella e intensa che sia mai nata.. voilà una bella ragione per non completarla mai.
Mi sono sempre chiesto come facesse un compositore -un arrangiatore, un produttore o chi al suo posto- a terminare il proprio lavoro. Certo, la casa discografica spinge per una chiusura sempre troppo prematura del progetto, però ci sarà un momento in cui lo stesso creatore esclama "ci sono, adesso funziona!", ecco, come può esserne sicuro? come può aver capito che deve fermarsi lì? non potrebbe aggiungerci, chessò, una tromba in sottofondo da collante fra la terza e la quarta traccia o sostituire un violino troppo stridente con una più pacata viola? e se proprio vogliamo limitargli le possibilità ipotizzando che l'autore faccia parte di un gruppo dalle scarse potenzialità, sarebbe comunque a conoscenza delle sovraincisioni, e allora, come potrebbe negare l'affiancamento di un leggero riff di accompagnamento al canto? Se si ricerca la perfezione, ci sarà sempre qualcosa che stona, eppure l'artista, consapevole dei suoi limiti, intraprende comunque quella strada, cercando di avvicinarsi il più possibile all'idea astratta, senza mai raggiungerla, la perfezione.
A lungo sono stato ossessionato da un suono che potesse fregiarsi di una qualche ambizione simile, fino a quando ho scoperto un'altro sentiero, un atteggiamento che stravolgesse completamente il punto di vista. Lo-fi.

I Guided By Voices hanno una lunga storia che io non conosco, e che comunque influisce marginalmente sul loro ultimo lavoro, sulle atmosfere da esso evocate. Le nozioni storiche sono buone per allungare qualche mediocre recensione, ma per conoscere un gruppo bisogna ascoltarlo, e allora risulta immediatamente evidente l'approccio di Robert Pollard e dei suoi GBV verso la musica. One two three four, jack che si staccano dagli amplificatori, chitarre grattate svogliatamente, il volume degli strumenti da sistemare dopo aver cominciato a registrare, sembra quasi di essere in sala prove -neanche in studio!- ad assistere ad un loro cazzeggio musicale. Qualche idea spruzzata qua e là, coretti che rivelano una preparazione non troppo convinta, e quel suono sporco e spontaneo che cerchi sempre di aggiustare, voci soffocate dal suono che galleggiano sopra un gain che farebbe la gioia di un quattordicenne. In un album di 21 tracce dove la durata media di un pezzo non raggiunge i 2 minuti, ogni canzone suona come un abbozzo, un demo per qualcosa che potrebbe essere sviluppato, da qualcun altro, perché i Guided By Voices non si fanno paranoie sulla perfezione, loro fanno musica, e poco importa se le atmosfere delle tastiere suonano posticce, se le voci sono sguaiate o stanche, se l'accompagnamento copre prepotentemente il cantato.. sono spontanei, sinceri. Ogni canzone sfila dietro l'altra, dandoti quell'accenno di sensazione per poi subito scomparire, risucchiata dalla successiva, noccioline sonore.

Dipende dalle ambizioni, ma anche da cosa si vuol fare.
Non sempre è necessaria una sovrappopolazione strumentale, a volte bastano delle sbavature per impreziosire.

Keep It In Motion by Guided By Voices on Grooveshark

giovedì 5 luglio 2012

Giant Giant Sand - Tucson

Giant Giant Sand, Tucson,
Fire, 2012
L'immaginazione non segue alcuna logica, è libera di vagare in terre sconosciute alla ragione, anche se prende stimoli da essa, e allora metto su il disco dei Giant Sand, allargatisi ora a un nuovo Giant, e provo a vedere cosa ne viene fuori.

Un deserto di terra battuta, selvaggio e privo di vita, qualche roccia a spezzare l'orizzonte, ed io.
Ascolto il ritmo regolare del mio respiro e mi guardo intorno, cercando di capire cosa faccio qui in mezzo. Strizzo gli occhi per abituarmi alla vastità dello spazio che mi circonda, mi giro più volte su me stesso per trovare un qualunque orientamento, incrociando gli accecanti riflessi del sole, che ancora alto nel cielo penetra fin sotto la mia pelle. Interpreto le crepe del suolo, infantili abbozzi di fulmini, come segni di sofferenza della terra, e mi sento meno solo. Alzo lo sguardo al cielo, sfidando il sole in tutto il suo splendore, ma sono costretto a ritornare quasi immediatamente sui miei passi, abbasso il volto e mi porto le mani agli occhi, cercando di scacciare la luce che vi è entrata. Guardo ancora intorno a me, adesso macchie viola e arancioni popolano la distesa prima vuota, e per quanto io le insegua con la vista, esse sfuggono rimanendo misteriose e indefinite. Lentamente i colori si fanno meno abbaglianti e le macchie si rimpiccioliscono facendo spazio ad alcuni dettagli del paesaggio che prima mi erano inspiegabilmente sfuggiti, in particolare attira la mia attenzione un vecchio e dimesso distributore di benzina. Provo a cercare degli indizi che rivelino la presenza di una strada quando dal nulla spunta fuori una musica da saloon, sento perfino il caratteristico suono delle porte a persiana che vanno avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro ad ogni persona che le valica. Mi concentro sulla musica, ma come succedeva con le macchie, più presto attenzione e più il mistero si infittisce. Comincio a convincermi che la prolungata assenza d'acqua e il sole cocente stiano producendo i loro effetti, e mi sento protagonista di una di quelle stilizzate vignette con al centro le allucinazioni dell'uomo con la bandana che striscia nel deserto, solo che intorno a me non c'è nessun cactus e i miei miraggi sono sonori e non potrebbero essere rappresentati con disegni. Appena percepito il mio dubbio circa la sua veridicità, la musica si fa più forte, viva, come se il gruppo che la stesse producendo si trovasse di fronte a me. Tendo l'orecchio. Suoni lenti e trascinati si alternano a fraseggi movimentati, ogni nota ha un peso, niente passa inosservato, l'accompagnamento scarno ed essenziale permette ad una voce beffarda di duettare con la sua eco. La musica è ora così concreta che ha offuscato il sole, lasciando filtrare il il giusto per un'incantevole illuminazione, intima. Tutto scompare, il distributore di benzina, le rocce crepate, il rosso della terra, e mi ritrovo di nuovo solo, le cuffie alle orecchie, nella mia Arizona.

Plane Of Existence by Giant Giant Sand on Grooveshark