lunedì 26 marzo 2012

Uochi Toki - Idioti

Uochi Toki, Idioti,
La Tempsta Dischi, 2012
Sono prosaico. Quando scrivo lettere di reclamo, coordinate per appuntamenti, stringate risposte di approvazione, perfino nelle liste, mi dilungo in particolari, inutili dettagli preziosi solo al mio senso espressivo. Poco più che ragazzo, la potenza della parola e il suo significato cominciarono ad affascinarmi, e tra la stesura di un dialogo e un racconto, un giorno del penultimo anno di liceo decisi di vedere cosa ci fosse oltre. BuraniA è la composizione che inviai ad un giovanile concorso di poesia e che rappresenta un enorme traguardo nella mia personale ricerca linguistica. Partecipai alla gara sicuro dell'insuccesso competitivo, ma il gesto mi significava tanto, non saprei dire precisamente perché: il brano che mandai era un'accozzaglia di parole riunite solo dalla mia volontà, dalla piacevolezza del suono o dall'accostamento dei loro sensi.

In contrasto alla frivolezza di tante liriche pop relegate all'appoggio di una melodia qualsiasi, gli Uochi Toki affiancano disturbanti rumori a testi destabilizzanti, straripanti di messaggio, dove la violenza del tu spara addosso all'ascoltatore un altro punto di vista, completamente diverso, da cosa? da tutto, anche da se stesso.
Seguace dei migliori sofisti, Napo, l'instancabile voce del gruppo, ha intuito la potenza del suo mezzo, che se proprio volessimo avvicinarlo a qualcosa potremmo dire "rap", dove però rime e metrica perdono la loro abituale accezione per non compromettere minimamente il contenuto. Che si parli dell'immolazione alla scienza, moderna forma di religione, o del convenzionismo culinario, la parola gioca sempre il ruolo più grande in tutto il disco, raggiungendo il suo culmine in Tigre contro tigre, in cui il soggetto diventa proprio l'espressione, passando da beat box e onomatopee a scioglilingua e calembours, da spassose imitazioni a artifici teatrali, criticando implicitamente (o forse troppo esplicitamente), l'assenza di profondità laddove si pretende insistentemente ci sia, e così eccoci in piedi ad applaudire scenografi e tecnici quando davanti a noi si inchinano insipidi attori.

Antimetropolitani in suoni industriali, bucolici nella loro alienazione, autoreferenziali e didascalici, gli Uochi Toki incidono dischi pur non essendo musicisti, non si preoccupano di rendere orecchiabili i propri pezzi, anzi, l'unico ritornello del disco potrebbe essere il peggiore che io abbia mai ascoltato dal punto di vista musicale; si spingono addirittura a un pezzo parlato quasi completamente privo di senso (riscattato e motivato però da quelle poche comprensibili frasi), eppure tutto l'album è denso, necessario.

Non si cerca la nostra approvazione, men che meno la nostra opinione, gli Uochi Toki si esibiscono in interminabili monologhi, curati e perfetti, e non importa se siamo o non siamo d'accordo con loro, perché sanno di avere ragione, e allora li ascoltiamo, facciamo tesoro degli spunti che ci forniscono, andiamo ad approfondirli, sviluppiamo un nostro modo di vedere e vivere le cose, senza farci rinchiudere in alcuna gabbia, restando autentici.

domenica 18 marzo 2012

Django Django - Django Django

Django Django, Django Django,
Because, 2012
Delle cicale friniscono, la voce di un torrido caldo che scioglie ogni intenzione. Un suono artificioso avverte della minaccia che sta per incombersi sulla quiete e lentamente la calma si fa tesa, si comincia a udire il nostro arrivo. Una futuristica cavalcata ci sta conducendo nella terra del Django Django, un fischio appena udito ci presenta una distesa sterminata circondata da rossi canyon, un ritmo grandioso, quasi epico, ci spinge verso l'insolita avventura, inizia lo spettacolo.
Un popolo di indiani, di quelli con una piuma in testa, ci accoglie con un incomprensibile canto, fatto di campionamenti irregolari ma ripetuti fino a diventare accattivanti, mentre convulsi si muovono animati da un oscuro spirito. Al loro fianco dei cowboy, di quelli con un cappello in testa, li guardano imperturbabili, sul volto non mostrano alcun sentimento, seri si avvicinano e non resistono, la musica è travolgente. Assistiamo ad una strana danza tribale, primordiale, dove indiani e cowboy si mischiano esibendosi in scatti ordinati, composti da gesti comici e squadrati. L'atmosfera surreale mi sopraffà e mi ritrovo anch'io immerso nell'analcolico baccanale, la cui estasi è data da musica ritmi e parole, ripetute e ripetute e ripetute, in un ben preciso disordine.

Già il nome del gruppo e il titolo del loro debutto sono sintomatici: quattro parole, tutte uguali, due per il nome, due per il titolo, una bizzarra simmetria, elementare, ovvia, e ripetuta. I Django Django si divertono delle loro invenzioni e sono contagiosi: se prima ho ballato con gli indiani e i cowboy è anche vero che poi mi sono trovato a creare numerosi suoni da aggiungere ai loro pezzi. La formula è facile, quasi sempre due accordi ripetuti, il primo rassicurante, il secondo sospeso e pronto a risolversi nella certezza del primo. Talvolta ci si spinge ai quattro accordi, ma l'effetto resta sempre efficace, diretto. La semplicità e la ripetitività dei brani permette al gruppo di costruirci sopra degli istrionici castelli vocali ed elettronici, dove alla presentazione iniziale del pezzo si aggiungono mano a mano dei nuovi elementi fino a completare l'opera con un suono completo, pieno. Il gioco non avrebbe a priori un termine, sembra quasi che inviti l'ascoltatore a continuarlo e non c'è da stupirsi se mi è capitato di confondere dei regolari colpi di tosse del vicino di toilette per un voluto effetto musicale.

Il primo pensiero che ho avuto ascoltando l'album è stato "Beta Band!", e in effetti i richiami al gruppo scozzese sono tanti, a partire dall'atteggiamento scanzonato e l'uso dei campionamenti. Poi si scopre che non solo i Django Django provengono dalla stessa regione, ma anche dalla stessa madre! Se però la Beta Band aveva un piglio più filosofico, introspettivo e sperimentale, i Django Django si concentrano invece sull'aspetto più giocoso e ironico della musica, dando luce a un allegro insieme di suoni e melodie magnetiche.
Si capisce allora come faccia ad ascoltare consecutivamente più volte il loro disco.

Hail Bop by Django Django on Grooveshark

domenica 11 marzo 2012

Andrew Bird - Break it yourself

Andrew Bird, Break it yourself,
Bella Union / Mom+Pop, 2012
Sentire e ascoltare indicano azioni distinte.
A sentirlo, Break it yourself potrebbe sembrare un disco soporifero, dal facile sbadiglio, un innocuo folk dai richiami a una tradizione ormai superata, dove il continuo uso del loop non aiuta certo a vivacizzare le lamentele del violino, contribuendo invece a creare un suono ripetitivo, poco coinvolgente.
Ad ascoltarlo, Break it yourself è un disco delicato, evocativo, dalle melodie gentili ed accoglienti, dove i violini, tutti suonati dal talento dell'artista, si aggrovigliano e si sciolgono in acrobatiche manovre, la voce calda e profonda non va mai sopra le righe, e quando potrebbe farlo si trasforma in un elegante fischio.

Ho un rapporto speciale con la musica di Andrew Bird, autore di uno dei brani fondamentali della mia vita, eppure non sempre riesco a viverla come dovrei. A un primo approccio, Andrew Bird potrebbe sembrare la scelta perfetta per il sottofondo di una cena romantica, dove le conversazioni spaziano a toccare ogni aspetto della propria personalità, incuranti di ciò che scorre dietro le loro orecchie, ma sarebbe uno sbaglio. Ho avuto bisogno di ascolti attenti prima di assaporare al meglio questo nuovo gioiellino.

Ho ascoltato Break it yourself, e mentre lo facevo mi sono affacciato alla finestra. Davanti ai miei occhi non c'era più la città, ma una distesa sterminata di campagna, sulla destra potevo vedere i campi di grano e in lontananza un ruscello, sembrava immobile tanto era tranquillo, e poco sotto di me, accanto ad un vecchio spaventapasseri posizionato più per abbellimento del cortile che per un vero e proprio bisogno, un uomo. Aveva una chitarra a tracolla, e appoggiato al tronco che reggeva la sua gamba, c'era un violino, di cui si udiva il suono anche se restava a terra. Non ricordavo che periodo dell'anno fosse, ma si respirava un aria di tarda estate e il fieno raccolto sotto il cascinale non tradiva l'impressione. Il pomeriggio non era ancora finito, ma il sole cominciava a scomparire, lasciandosi dietro stanche ombre della giornata. L'uomo cantava, non c'era nessuno ad ascoltarlo se non qualche coniglio, che sembrava apprezzare l'esibizione. Un leggero vento muoveva l'erba, disperdeva le note tutt'intorno, riportando indietro dei leggeri echi, così da far sembrare che l'uomo suonasse il violino, la chitarra, e cantasse tutto allo stesso tempo. Ogni tanto gli sfuggiva un fischio, dolce, come una ninna nanna. La sera era ormai arrivata, l'uomo continuava a cantare, adesso al cielo, alle sue infinite stelle, mentre dalla mia finestra, io lo ascoltavo.

Solo dopo la mia metafisica esperienza ho scoperto che il disco è stato effettivamente registrato in un granaio, trasformato per l'occasione in una sala di registrazione dal contadino Andrew Bird.

domenica 4 marzo 2012

Anstam - Dispel Dance

Anstam, Dispel Dance,
50weapons, 2011
Quando ero piccolo erano gli anni '90, e com'era giusto che fosse in quel periodo, anch'io avevo una tastierina, un piccolo casio con cui sbizzarrire il mio estro creativo, schiacciando a caso i tasti bianchi quanto quelli neri. La bellezza di quel giocattolo, perché nemmeno nell'ignoranza fanciullesca l'ho mai considerato veramente uno strumento, erano i suoi molteplici effetti, certo, non tanti come quelli del grande casio con cui mio padre si divertiva in modo più convenzionale, ma comunque abbastanza da non essere ignorato dalle maldisposte orecchie dell'ambiente domestico. Ancora oggi nella mia testa riecheggiano le sirene delle ambulanze, lo sbattere di tubi metallici, o gli improvvisi scratch, selezionati accuratamente tra gli effetti e riprodotti di continuo, uno per volta o sovrapposti, con cui mi esibivo per casa grazie a quell'infernale marchingegno che solo più tardi capii essere un rudimentale sintetizzatore.
Accanto a quei suoni, ce n'era un'altro fondamentale di cui avevo perso memoria ma nella seconda traccia di Dispel Dance mi viene spietatamente ricordato, l'inconfondibile clacson di un aeroplano. Un suono monotono, artificiale, imponente e turbante, ripetuto con cura e regolarità, per poi essere affogato da un ritmo aggressivo, una corsa ossessiva verso una meta sconosciuta, cui rivolgere la propria fuga.

Anstam è un progetto che vive e cresce nei bassifondi musicali, tra echi di techno e house, dove non si balla ma ci si lascia travolgere da sincopi elettroniche: dubstep, parola che non conoscevo, e che tuttora accolgo nel mio vocabolario con una certa fatica.
Anstam non ha una tastierina ma un mostro, apparentemente indomabile, ma è solo il primo ascolto, quello in cui disordine e smarrimento predominano. Superata la confusione iniziale si intravedono strutture e schemi, intricati e nascosti, ma presenti.
Dopo 3 ep noti nell'ambiente, l'esordio di Anstam arriva inaspettato e coperto da nebbia, non si è nemmeno sicuri di chi si celi dietro questo nome, anche se le voci più attendibili parlano di due fratelli tedeschi, di Berlino. I dati anagrafici non aggiungerebbero comunque niente all'alienazione dei suoni, potrebbero anzi guastare quella asettica impersonalità che per tutto l'album si fa pressante, invadente, calandomi in un vortice d'inquietudine. La mente si dimena mentre gli auricolari trapanano il cervello, per gonfiarci al suo posto un palloncino che mi possa riempire completamente all'interno, soffiando fino a farlo esplodere e allora ricado in uno stato di assenza.