domenica 29 gennaio 2012

The High Llamas - Talahomi Way

The High Llamas, Talahomi Way,
Drag City, 2001
Un vecchio standard jazz preferibilmente cantato, titoli di testa in windsor su sfondo nero, gente che si parla sopra in profondi discorsi superficiali, e poi la psicologia, l'assurdo, il caso, e quel sentimento di piacevole soddisfazione di assistere ad un altro film di Woody Allen.
Così per gli High Llamas, non ci sono sorprese, ogni nuovo album è una conferma, e una gioia. Eppure, se li si confronta attentamente, le differenze tra un'opera e l'altra sono evidenti, ma la cornice è la medesima.
Violini e fiati, suoni attenti e curati, un eterno e riconoscente amore per Brian Wilson e i suoi più maturi Beach Boys, delicate armonie accompagnate da timide voci.
Lo chiamano chamber pop, e per una volta mi trovo d'accordo con l'etichetta, in poche battute ci si ritrova catapultati in un'altra mondo, e davvero sembra di sentirli nella propria cameretta a suonare per te, a lasciarsi andare in abbozzi di infinite suite, solo per te.
Sean O'Hagan, il cuore irlandese del gruppo di Londra, ha un raro talento affinato col tempo per l'arrangiamento, tanto che gli episodi di Talahomi Way sembrano più degli arrangiamenti sorretti da melodie, e non il contrario. La voce perde il ruolo di strumento principale, nascondendosi dietro agli altri suoni, su tutti quelli degli archi, che per l'intero album sembrano danzare felici di una primavera appena giunta. Le strutture delle canzoni sono stravolte, strofe e ritornelli vengono anticipati dagli strumenti per poi essere ripresi dal canto, talvolta strofe e ritornelli non sono neppure presenti. Non è un caso che la traccia che dà il titolo al disco sia di questo tipo: il lungo finale, che comincia dopo appena quaranta secondi di un abbozzo di una bellissima canzone, non è altro che una progressione di accordi ripetuta a non finire, ma sempre in una maniera diversa, mostrando tutta la bravura dell'artigiano Sean O'Hagan. Forse è questo manierismo ostentato che non ha permesso agli High Llamas di raggiungere la fama che meriterebbero, o forse il continuo ridursi a cover band di ipotetici tesori perduti mai scritti da Brian Wilson. Dopo tanti anni di carriera Sean O'Hagan e il suo gruppo sembrano rassegnati a questo, a un album ogni tre o quattro anni, una manciata di concerti in patria e un paio di eccezioni all'estero, e dispiace, perché gli High Llamas sono un grande gruppo.

Sono ormai tanti anni che aspetto che vengano a trovarci in Italia, ma non ho ancora perso la speranza, intanto per ingannare l'attesa ascolto un'altra volta questo meraviglioso regalo,
Talahomi Way.

domenica 22 gennaio 2012

The Brandt Brauer Frick Ensemble - Mr. Machine

The Brandt Brauer Frick Ensemble,
Mr. Machine, Studio !K7,  2011
La scelta del nome è la parte più difficile del percorso artistico di un gruppo. Una parola, una frase, un suono, o ancora un'insensata accozzaglia di lettere affiancate dal solo pretesto di trovare un marchio personale, tutto può diventare un nome. Perfino niente: i nostri ipod sono pieni di Unknown Artist, ma questa è un'altra storia.
La scoperta di nuovi idoli parte proprio da qui, il nome. Così, spulciando tra incomprensibili e improbabili epiteti, ne ho trovato uno fantastico, Brandt Brauer Frick. Serio e ironico al contempo, arcanamente tedesco, tinto di colori elettronici e avangardisti. Leggo il titolo dell'album e trovo la conferma, Mr. Machine.
Brandt potrebbe significare automa, Brauer distruttore e Frick pagliaccio, e tutto viene scritto in maiuscolo perché in Germania così si fa: l'ensemble del pagliaccio automa distruttore, grandioso! E invece Brandt Brauer Frick non vuol dire nulla, o peggio, sono i cognomi dei tre musicisti attorno ai quali ruota l'intera ensemble. In ordine alfabetico.

Ormai però i tre uomini hanno catturato la mia attenzione, non posso far altro che assecondarli e ascoltare l'album, incuriosito ancora di più dai video che trovo sul loro sito. Le immagini suggeriscono un'atmosfera classica, una piccola orchestra dotata perfino di fiati e arpa; i suoni incalzano con fare ipnotico e martellante. Sembra di ascoltare l'anello mancante tra la classica e l'elettronica. Musica techno con strumenti acustici, eppure l'ensemble si muove con disinvoltura in questo ossimoro.
Ogni pezzo viene costruito con maniacale ossessione, fino a raggiungere un compimento sperato e liberatorio, catartico. 

Un gruppo da tenere sotto osservazione, live dev'essere strepitoso.
Lo scoprirò, presto.

lunedì 16 gennaio 2012

Atlas Sound - Parallax


Atlas Sound, Parallax, 4AD, 2011
Alla fine del concerto, dopo aver giocato per una quarantina di minuti con i diabolici effetti e la chitarra acustica a tracolla, Bradford Cox ringraziò il pubblico, con un vocino così esile e uno sguardo timido. Non ricordo precisamente le parole ma erano poche, molto semplici, sincere. Sembrava stupito della presenza della gente davanti al palco che non solo lo guardavano storpiare e distorcere le sue creature, addirittura lo applaudivano.

Ho scoperto Atlas Sound, il progetto solista del cantante dei Deerhunter, poco prima che arrivasse in città. Probabilmente dovevo aver visto il suo nome in qualche sito specializzato e me lo sono segnato. Quasi immediatamente mi sono innamorato di Logos, l'album più recente di quel periodo. La facilità delle strutture e la delicatezza dei suoni, avvolte dal calore di un riverbero quasi esasperato trovarono in me un ottimo ascoltatore, e non solo: i primi secondi di Shelia strappati dalle auricolari bastarono a contagiare un amico.

Bradford Cox scrive perché ne ha bisogno, così in un anno non si accontenta di pubblicare un meraviglioso album col suo gruppo, il sorprendente Halcyon Digest, ma ci regala -letteralmente- le sue intime registrazioni casalinghe, non un paio di brani, quattro dischi.
Nel 2011 ero impreparato, fortunatamente una vecchia conoscenza è corsa in aiuto.
Pochi giorni fa, spulciando la pagina web di Sondre Lerche mi sono imbattuto nella sua classifica delle canzoni migliori del 2011, trovando tra le prime della lista un'inedita Te amo.
Atlas Sound è ritornato per raccontarci un altro aspetto, più solare, quasi pop, ma sempre malinconico del buon Bradford.

L'atmosfera è un'altra, Let the blind era il primo passo, questo è il terzo.
Parallax.
C'è ancora tanto da dire.

The Shakes by Atlas Sound on Grooveshark