martedì 11 gennaio 2022

Deerhoof - Actually, You Can

Deerhoof, Actually, You Can,
Joyful Noise Recordings, 2021
Una sera d'estate, quando la città era ancora una novità da scoprire, mi trovai intorno a un bidone improvvisato a falò in compagnia di una manciata di persone, nel retro di quella che sembrava una fabbrica abbandonata. Nonostante conoscessi solo superficialmente il ragazzo che mi ci aveva portato, anche lui da poco in città ed entusiasta a scovare posti simili, l'atmosfera era rilassata e amichevole. Ero forse il più giovane. Nessun convenevole, la mia presenza era data per scontata, ben accetta nel godersi un martedì che volgeva al termine.

Conoscevo il complesso che mi circondava: una cotoneria industriale della defunta DDR. In seguito alla riunificazione della Germania venne smantellata e lasciata a sé, diventando in seguito attrazione per artisti, artigiani e altra gente felice della propria indipendenza e pronta a riempire di vita uno spazio che glielo permettesse di fare. Tra una partita di biliardino e una birra finii per chiacchierare con un uomo e gli chiesi se sapesse cosa fosse di preciso quel posto in cui ci trovavamo. Salta fuori che siamo all'esterno di un club fondato nei primi anni duemila ma che per ragioni di sicurezza non poteva più aprire al pubblico. Lui ne era il proprietario. Mi chiese se avessi voglia di dare un'occhiata dentro.

Era un luogo surreale, interamente composto da materiali di scarto, pieno di cimeli provenienti da epoche diverse, grotteschi manichini appesi al soffitto, per terra dei binari. Dietro al bancone del bar c'erano ancora i prezzi dei cocktail che ormai da anni non venivano venduti. L'uomo accese un interruttore e i manichini cominciarono a muoversi sopra le nostre teste, un divano si richiuse su se stesso, come se potesse inghiottire chi ci si sedesse sopra, un'altra poltrona si alzò in volo, da un grosso buco del muro uscì un letto che viaggiava sui binari in mezzo alla pista da ballo. Delle luci rivelarono altri manichini rinchiusi dentro enormi gabbie, protesi che si muovevano autonomamente, delle risate registrate risuonavano in sala. Sembrava un circo degli orrori, un affascinante giocattolo di dimensioni spropositate.

La musica dei Deerhoof è una giostra per adulti, fantasie infantili rielaborate da chi bambino non lo è più, ma che non ha dimenticato l'essenzialità del gioco. Le chitarre sparano note a più non posso, la batteria si inerpica in frenetici e instancabili ritmi, la voce ci rassicura su questa montagna russa, ci tiene per mano mentre precipitiamo con lo stomaco in gola.

Un carosello noise, reggiti forte che gira gira gira.

lunedì 3 gennaio 2022

Low - HEY WHAT

Low, HEY WHAT,
Sub Pop, 2021

Quando qualche anno fa aspettavo che gli artisti uscissero sul palco per cominciare a suonare, esaminando ciò che mi si trovava davanti fui sorpreso nel constatare la presenza di effetti per chitarra decisamente sperimentali Red Panda Particle Granular Delay. L'unica altra volta che avevo assistito ad un concerto dei Low, la loro musica era ancora minimalista ed essenziale, non riuscivo quindi a spiegarmi cosa potessero farci quei particolari marchingegni in un loro spettacolo. Montreal Assembly Count to Five.

Avevo cominciato da poco ad appassionarmi a quelle estensioni musicali  racchiuse in scatolette metalliche. Da decenni i pedali accompagnano i chitarristi contribuendo a definirne il suono, meno scenici di una chitarra elettrica ma altrettanto fondamentali, se non di più. Interi generi musicali sarebbero impensabili senza pedali per chitarra. Quello che aveva cominciato ad affascinarmi erano però dei pedali completamente diversi da quelli che avevo sempre conosciuto. Si trattava di effetti insoliti, che trasformavano radicalmente il suono della chitarra, stravolgendolo, spezzettandolo, mischiandolo, effetti innovativi che rendevano la chitarra uno strumento diverso seppur mantenendone l'identità. Scoprii un universo sommerso di entusiasti come me e provavo un interesse smodato e incomprensibile a guardare video esplicativi di questi complicati giocattoli. Le possibilità sonore erano infinite, un semplice pizzico di una corda poteva divenire un tripudio di sfumature soniche, eppure faticavo a trovare tracce di questo incredibile mondo sonoro nella musica che mi entusiasmava. Era come se tutte quelle magie sonore restassero confinate nel mondo delle possibilità. Se  attraverso i pedali esploravo dettagli di tecnicismi acustici, la musica che ascoltavo restava indifferente a tutto ciò. Non avrei creduto che a colmare questo divario sarebbe stato lo stesso gruppo che trent'anni fa si muoveva nelle atmosfere lente e pacate in ciò che era chiamato slowcore.

Sporco e preciso nei dettagli, il suono di HEY WHAT sono chitarre e chitarre irriconoscibili, voci e voci sinuose. Ruvide e delicate, le canzoni sono fragili melodie sdraiate su suoni aggressivi e martellanti. La batteria quasi completamente assente sostituita da note distorte. Le chitarre sono dappertutto, appropriandosi anche degli spazi ritmici, sostituendo con note distorte quasi completamente il ruolo affidato alla batteria. Brani maestosi che si sublimano in un armonico rumore e brani teneri che si sciolgono su atmosfere eteree.Ogni brano è legato al successivo, dando vita ad un pezzo unico e omogeneo. Laddove di solito i respiri sono tra una canzone e l'altra, qui si trovano all'interno dello stesso brano, che si acquieta, si tranquillizza per poi rinvigorirsi. Un costante equilibrio tra rumore e armonia.

Difficile classificare il genere del disco, mi è capitato perfino di trovarlo sotto la voce "elettronica", cosa piuttosto inusuale per un album quasi interamente composto da sole voci e chitarre. La realtà è che gli strumenti principali qui sono sì le voci e le chitarre, ma anche gli effetti per chitarra. Sembra come se i brani siano nati dagli effetti e dalle loro possibilità. Microloops e distorsioni, riverberi e feedbacks più che accordi e riff. Quello che a descriverlo può sembrare un disco freddo e disordinato è invece di una profonda bellezza e commuovente intimità.

martedì 31 dicembre 2019

die Fremde - γνῶθι τον ἄλλον

die Fremde, γνῶθι τον ἄλλον
die Fremde, 2015
Quasi per gioco, per sfida, cominciai a scrivere di musica. O meglio, cominciai a scrivere con la musica. Il piano era semplice: ogni settimana avrei scelto un album che in qualche modo avesse attirato la mia attenzione, l'avrei ascoltato, attentamente ma anche in sottofondo, dopodiché avrei scritto qualcosa, qualsiasi cosa, l'importante era scriverne. Un pensiero, un ricordo, una recensione o anche solo un'idea ispirata dalla musica che avrei ascoltato, insomma, un futquo.

Quando cominciai era più una scusa per scoprire attivamente nuova musica, liberarmi dall'idolatria dei suoni del passato e collerateralmente conoscere meglio il mondo in cui vivevo. Diventai un ascoltatore più attento e mi sorpresi di quanta buona musica circolasse, addirittura troppa per starci dietro. Era il 2012, e ancora oggi ho l'impressione che quell'anno fosse particolarmente rigoglioso in qualità e quantità musicale, in realtà è stato l'unico anno in cui regolarmente cercavo e mi spingevo in orizzonti musicali a me ignoti e ancora oggi risento dell'effetto positivo di questa esperienza- alcuni degli artisti qui trattati sono entrati nel mio Olimpo personale, ne seguo tuttora con piacere la carriera e svuiluppo visitandoli quando possibile ai loro concerti.

Arrivò poi il 2013 con i suoi grandi stravolgimenti. Mi trasferii in Germania, dove tuttora vivo, e il tempo e l'attenzione da dedicare a nuovi futquo diventarono esigui. Mi costrinsi a scrivere, purtroppo però ci riuscii solo sporadicamente. Quando mi accorsi di aver realizzato quasi mezzo centinaio di futquo mi posi come obiettivo di raggiungere i 52 album, così da offrire all'ipotetico lettore un album a settimana per un anno. Arrivato a 51 la pressione per la scelta dell'ultimo album si fece grande, e quando dopo qualche mese trovai il perfetto candidato, la pressione per scriverne diventò ancora maggiore di quella della ricerca. Col passare del tempo e come spesso succede con il procrastinare, la cosa si ingigantì e ancora oggi resto con in testa il perfetto album per concludere il viaggio, ma niente di scritto.

In un momento di noia pomeridiana mi trovavo seduto a letto con chitarra alla mano e un libro di poesie davanti a me, iniziato ma più volte interrotto - una poesia richiede uno sforzo più grande di un romanzo. Ossi di seppia di Eugenio Montale. Cercai una poesia studiata anni addiettro al liceo e comincia a leggerla accompagnandomi con la chitarra. Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe e a lettere di fuoco suonava bene, accelerai il ritmo e ricominciai Non chiederci la parola che squadri da ogni lato parlavo, parlavo e mi accompagnavo, ma più ripetevo il processo, più le parole si facevano musica. Fuori dalla camera in cui mi trovavo si parlava tedesco, in quel momento era come un piacere proibito ascoltare il suono della mia lingua, un suono diverso, con una sua musicalità personale. Lingue come musica.

Passò qualche settimana prima che venisse l'idea di mettere in piedi un progetto musicale basato su questo semplice concetto, lingue come musica. Con l'entusiasmo del neofita cercai le versioni originali di testi che mi appassionavano. Saramago, Charmes, Saint-Exupéry, Cervantes, Poe ... e insieme a Robert e Till cominciai ad arrangiare i tanti pezzi abbozzati per un improbabile e onesto trio, composto da chitarra classica, basso e violoncello. Aiutati da amici madrelingua organizzammo quella che sarebbe dovuto essere l'unica esibizione del progetto, qualcosa a cavallo tra concerto e lettura. L'atmosfera e la riuscita dell'evento mi convinse a realizzare finalmente quello che per tanto tempo rappresentava uno dei miei sogni e nonostante l'anacronisticità della cosa, qualche mese più tardi incidemmo γνῶθι τον ἄλλον, l'album di debutto di die Fremde.

lunedì 13 gennaio 2014

Future of the Left - How to Stop your Brain in an Accident

Future of the Left, How to Stop your
Brain in an Accident
,
Prescription, 2013
Codesto solo possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
Eugenio Montale

Ma tu, che musica ascolti?
Interlocutore

Nella mia presuntuosa ignoranza adolescenziale mi sono trovato spesso a rispondere con un superficiale "di tutto", convinto della verità insita in quelle due parole, seguite immediatamente da una lista di artisti e band che dessero conferma a quella apertura mentale appena affermata. 
Mi accorsi in seguito che i nomi citati appartenevano tutti al medesimo mondo, che altro non era che una minuscola parte dell'universo musicale che ci circonda, riassumibile nel sommario termine rock, neppure nel suo più ampio significato in quanto generi come punk o metal in tutte le loro sfumature non erano da me minimamente considerati. Allargai poi i miei orizzonti accogliendo nel mio tutto cenni di altri pianeti quali il reggae, lo ska, la disco music, ma anche il blues e il rock'n'roll, fino ad arrivare all'elettronica, al cantautorato.. e il mio semplicistico "di tutto" venne sostituito da un astuto elenco di ciò che non ascoltavo, trovandomi così coinvolto in interessanti conversazioni riguardo ciò che non conoscevo, salvandomi dall'imbarazzo di dover confinare in pochi secondi il mio amore per la musica.

I Future of the Left sono un ottimo esempio di ciò che non ascoltavo. Chitarre esagitate, urla disperate, atmosfere cupe e garage, l'aggressività, la contagiosa potenza di distorsori e rullanti violentemente colpiti, la semplicità armonica che non esce più dalla testa, pause e cambi di direzione in un collage noise di suoni, l'ironia punk di un kazu, cori da ubriachi a fine partita, eppure non so quante volte ho già ascoltato questo disco, con il desiderio alla fine di ricominciare da capo e rivivere quell'esperienza di onnipotenza tipica del rock più grezzo.

Disco variegato, in cui ogni pezzo rappresenta a modo suo un lato di questi mondi da me troppo a lungo ignorati, che adesso insistentemente risuonano nella mia testa,
e la voglia di conoscere, di una nuova prospettiva, di guardare quell'universo di suoni anche con un nuovo cannocchiale, dalle lenti più spesse e indistruttibili, che possano andare a fondo perfino laddove sembra esserci un buco nero.

domenica 5 gennaio 2014

Yo La Tengo - Fade

Yo La Tengo, Fade,
Matador Records, 2013 
Ero nervoso prima di salire sul palco, a dirla tutta ero nervoso già da diversi giorni, da quando la data si avvicinava sempre più all'oggi. Nonostante mi allenassi da tempo, a due giorni prima della scadenza non avevo ancora nulla di concreto tra le mani, solo qualche idea per la testa. Uno spettacolo. Un breve programma in cui sarei stato l'assoluto, nonché unico, protagonista. Un impegno che tanto leggermente mi ero assunto e a cui non potevo più sottrarmi, non tanto per questioni logistiche, quanto per orgoglio - se non l'avessi affrontato in questo momento, non ce l'avrei mai fatta.
Ancora un giorno, le intenzioni più chiare ma i numeri da presentare ancora da costruire, compito che riuscirò a portare a termine poco prima di andare a dormire, a notte ormai inoltrata, quando soddisfatto mi corico sotto le coperte, impaziente della reazione che l'indomani il pubblico mi avrebbe riservato.
Lo spettacolo fu un trionfo. Dei tre numeri che proposi mi stupì il successo che l'ultimo, il più semplice e giocoso, suscitò tra gli spettatori. All'impeccabile tecnica del primo segmento, alla trasudata poesia del secondo, era stata preferita la leggerezza del terzo.

La bellezza di Fade risiede proprio nella sua semplicità, nella sua essenzialità. Artigiani del suono da lungo corso, gli Yo La Tengo sono consapevoli che per impressionare non sono necessari giochi pirotecnici, piuttosto delle scintille, e con quella rassicurante tranquillità che solo ai veterani appartiene, dipingono incantevoli atmosfere dentro ogni canzone, che ad analizzarle sorprende scoprirne la semplicità, e ci si stupisce nel constatare quanta intensità possa portare un solo accordo, se lo si sa usare, se si ha qualcosa da comunicare.
I riverberi e le lunghe note, le calde voci, sussurri che dialogano con confortanti chitarre, e la benefica sensazione che il suono che ne esce sia lì a proteggermi, l'annuncio di una primavera che arriva sempre dopo un inverno, e intanto l'acqua bolle, le foglie di tè già nella tazza, le candele accese che si riflettono nell'oscurità dei vetri delle finestre, ed io mi stringo alla coperta, lascio che le palpebre mi coprano con lunghi intervalli lo sguardo, e sento l'incanto della musica.

lunedì 3 giugno 2013

Sunset - Gold Dissolves to Gray

Sunset, Gold Dissolves to Gray,
Autobus, 2009
Succede che mi sveglio, gli occhi aperti all'improvviso, lo sporco bianco delle mura che mi osserva. Resto immobile per qualche secondo dopodiché, senza nessuna ragione apparente, un sorriso si forma sulle labbra. Mi guardo intorno, alla ricerca di qualcosa di indefinito ma presente, e la sorpresa di trovare tutto esattamente al proprio posto - i vestiti sparsi per la stanza, la chitarra appoggiata alla parete, qualche scontrino caduto a terra ormai da giorni- enfatizza la gioia.
Succede che mi alzo, mi vesto, e nel rompere il passante della cintura trovo una nuova ragione di euforia. Tutto come ogni giorno, prendo le chiavi ed esco, per andare ancora una volta nello stesso posto di sempre, e mi stupisco nel vedere le facce annoiate della gente che mi cammina di fianco. Cerco i loro sguardi, schivi, e quando riesco a incrociarli esibisco il mio disinteressato sorriso.
Succede che questa irrazionale allegria possa essere contagiosa.
Piove, l'ombrello tra le mani, chiuso. Alzo il volto al cielo e assaporo le gocce che mi rigano le guance. Oggi è un giorno come tutti gli altri, e continuo a sorridere.

Succede che a volte si è felici, e non c'è bisogno di una ragione, o perlomeno di comprenderla. Si può tentare di approssimarne un'analisi, e allora ecco che si scorgono degli accordi in maggiore, con la tendenza alla settima, ma sempre al posto giusto, mai invadenti, e poi dei pianoforti saltellanti a scandire le battute, una voce soffice e complice, chitarre di un altro tempo che danzano sopra ritmi intimi e discreti. 
C'è poco da dire sulla felicità, perché nel momento in cui si comincia a porsi troppe domande è già svanita. La gioia è un attimo, e allora le canzoni volano via in rapida successione, cercando di mantenere vivo quel fugace sentimento, e quando giunge la fine del disco, ricomincio da capo, perché anche se piove, se il fiume straripa e il calore del sole è solo un vago ricordo in questa primavera che non c'è, oggi sono felice.

lunedì 1 aprile 2013

Baustelle - Fantasma


Baustelle, Fantasma,
Warner Atlantic, 2013
Lunedì dell'Angelo, domenica straordinaria.
Prima di arrivare ad un'intima poetica, spesso si passa attraverso l'imitazione, alla storpiatura e alla parodia. Forse era questa la ragione per cui tempo fa mi divertivo a sovvertire i testi delle canzoni italiane che per mia o altrui volontà riempivano le giornate, un ponte verso la mia lirica. Particolarmente felici erano le sperimentazioni a sfondo Afterhours, il cui apice si riassume in quel "qualcosa dentro di me / che mi masturba l'anima" della rivisitazione della vedova bianca; ma anche l'ironia che circondava l'ascetismo di Gesù Cristiano Godano, l'allora cantante dei Marlene Kuntz, prima che tagliasse barba e capelli. Se dovessi ripetere il gioco oggi i Baustelle sarebbero un ottimo tema, ancora una volta, perché già nel tempo fa appena menzionato era volontà un po' di tutti ascoltare i Baustelle, perfino studiarli e criticarli, per via di quel superfluo e talvolta misero citazionismo, fonte di infinite discussioni nella mia giovinezza.

L'adolescenza è ormai un ricordo, e così anche nelle parole di Bianconi, ora si è raggiunta definitivamente la maturità, quella seconda età in cui ci si trova a considerare ogni aspetto della vita, con un morboso interesse verso ciò che più ci respinge ed attrae, l'amore, la morte, e bastano un apostrofo e una lettera per cambiare l'umore. Seppure ad ogni strofa si respira un piglio agnostico, ad ammantare ogni concetto resta lei, l'anima, nel suo significato più nobile, poetico, quell'indefinita essenza che ci definisce attraverso ogni nostra azione, realizzandosi nell'amore, sublimandosi nella morte, e ancora apostrofo e lettera si accompagnano.

Se dovessi ripetere il gioco lascerei stare l'adolescenza, oggi userei immagini capaci di abbracciare cattolicesimo e sensualità, che descrivano la vaticinata e scongiurata decadenza italiana, di quella terra di casanova e padre pio. Ma nella sua complessità Fantasma è pregno, e per quanto l'abbia già ripetutamente ascoltato, confesso di doverne ancora cogliere a fondo l'entità, ché qui la sempre viva ambizione baustelliana si è spinta ben oltre al pop, confezionando un'operetta poetica, in cui la musica si adegua all'intensità delle parole, e allora c'è bisogno di un'orchestra perché di carne al fuoco ce n'è parecchia. Cinematografica, la stabile e chiara voce di Bianconi esige la comprensione dell'ascoltatore, consapevole della bellezza dei suoi sdruccioli versi, talvolta criptici, arcani, comunque eleganti, mentre la musica, morriconiana ed epica, si smuove in tipici risvolti baustelliani, trascinandomi in dimensioni sospese, quell'indefinito che la religione cerca di spiegare, ma basta la musica per avvertire.