venerdì 28 dicembre 2012

John Talabot - ƒin

John Talabot, ƒin,
Permanent Vacation, 2012
Parecchi anni fa ebbi per la prima volta un'articolata conversazione che si potrebbe riassumere in due punti: i dj non sono musicisti e i dj sono musicisti. Non ricordo quale delle due posizioni sostenessi, può anche darsi che per amor di polemica mi sono trovato ad argomentare a favore di una tesi e allo stesso tempo appoggiare segretamente l'altra, sta di fatto che in seguito mi è capitato di ripetere il copione con svariati interlocutori interpretando ora un ruolo ora l'altro. Il problema è che ci sono buone ragioni per entrambi gli argomenti, perché se è vero che dj e producers fanno musica, soddisfacendo in questo modo la naturale definizione di musicista, è anche comprensibile lo storcimento di naso di alcuni puristi di fronte a tale affermazione dato che la principale occupazione di un dj è quella di creare sample sonori, modificarli e mixarli, rendendo la propria attività più affine a quella dell'ingegnere musicale.

Ascolto John Talabot e mentre i suoi loop profondi e cupi mi scorrono nelle orecchie ripenso distrattamente alla questione riguardo la legittimità che un dj abbia o meno di fregiarsi dell'élitario titolo di musicista e mi accorgo dell'inutilità della cosa, dato che un dj ha tutte le carte in regola per elevarsi al rango di artista. A che importa se nessuno strumento vero compare nel disco, se il canto è sostituito da lamenti e campionamenti, se all'armonia e alla melodia viene preferito il suono e la sua evocazione? Finalmente liberati dall'oneroso compito di far danzare i presenti in sala, i dj possono oggi utilizzare la propria scienza per allargare gli orizzonti della musica, sviluppando e offrendo un suono nuovo, artificiale quanto quello del violino o del pianoforte, contemporaneo come i macchinari che ci investono per la strada o sugli schermi, che si srotola fuori dalle auricolari, un suono che non esiste perché falso, frutto di modifiche e rimaneggiamenti, eppure è qui a scivolarmi dentro, in tutto il suo splendido presente.

L'elettronica nel suo inganno mi risulta essere la musica più onesta.

Journeys (feat. Ekhi) by John Talabot on Grooveshark

domenica 16 dicembre 2012

Chromatics - Kill for Love

Chromatics, Kill for Love,
Italians Do It Better, 2012
L'avrei dovuto capire sin dall'introduzione. Aprire un disco con una cover è una pessima presentazione, tanto più se il pezzo in questione è fin troppo noto e la versione proposta non è carica come l'originale ma si limita a riproporne accordi e melodia, spogliandolo della calda densità che lo contraddistingueva per ammantarlo di una fredda e artificiale contrizione. Avrei dovuto averne la certezza quando i pezzi che seguivano quel poco riuscito preludio non aggiungevano nient'altro alle prime impressioni, anzi confermavano quella sensazione d'irritazione che provavo. Avrei dovuto, ma troppe recensioni entusiastiche mi hanno fatto desistere e ho permesso loro di farmi convincere che avrei dovuto dare un'ulteriore occasione ai Chromatics e al loro quarto album, perché in effetti un solo ascolto dei primi tre brani era troppo poco per accantonare il progetto, così ho proseguito, e poi, la copertina continua a piacermi e non mi dispiace vederla lì in alto a sinistra. Inoltre mi affascinava la possibilità di un intervento convintamente negativo.

Deciso ad andare fino in fondo ho ricominciato da capo l'ascolto. Ripercorrendo i primi tre brani l'irritazione si è trasformata in sorpresa: mi chiedevo come fosse possibile che questo fosse l'album di cui avevo visto parlare così tanto e bene. Bisogna sapere che prima di ascoltare un album cui voglio dedicarmi evito categoricamente la lettura di recensioni e interpretazioni di critica o ascoltatori, onde evitare qualsiasi influenza esterna alla mia immaginazione e al mio giudizio; non appena capisco quale sarà il successivo disco su cui concentrarmi, smetto immediatamente di ricercare informazioni al riguardo. Questo procedimento ha fatto sì che di alcuni futquo non conoscessi nemmeno il genere, e se talvolta ciò è stato all'origine di una gradita sorpresa, in questo caso si è rivelato una delusione.
xx, le due lettere che mi hanno attraversato la mente durante l'ascolto, e anche se gli americani Chromatics sono in giro da un bel po' di tempo prima dei giovani inglesi, alle mie orecchie il primato di quel suono gelido e distaccato resta agli xx, ed anche qui regna una ricercata sofferenza, un giovanilistico spleen annoiato e tenebroso voluto ad ogni costo, e la lentezza, gente, la lentezza. Al contrario degli xx, fenomeno comunque pop di facile commercializzazione, qui vi sono delle pretese d'appartenenza ad una élite, ma le lunghe suite di soporiferi suoni che cercano di rendere seria la tragicità di posa del gruppo cozzano contro gli squallidi vocoder da revival anni novanta che qua e là appaiano. Forse l'idea era quella di dare uno spessore a meccanismi tipici della musica "facile", ma rallentare i tempi non significa per forza intensificare le emozioni, ripetere di continuo il medesimo passaggio non rende il tema più incisivo.
Al di là di ogni considerazione resta sempre il piacere dell'ascolto, che purtroppo raramente ho provato grazie ai Chromatics, ritrovandomi anzi con l'amara nostalgia per il 1993 degli Ace of Base.

Ho provato a chiudere gli occhi, lasciarmi coinvolgere dalla musica, e mi sono ritrovato sprofondato in un'oscurissimo oceano, trascinato verso il basso, mentre il blu della superficie diventava sempre più nero e lontano. Cercavo di opporre resistenza, ma il mio corpo era attirato dall'abisso ignoto e spaventoso. Dimenarsi non serviva a nulla, perché ormai ogni possibilità di salvezza era svanita, e imperterrita la mia discesa procedeva, i miei polmoni si riempivano di acqua e di sale, e il giorno diventava notte, anche se sapevo che il sole era ancora alto sopra di me.

Lady by Chromatics on Grooveshark

sabato 8 dicembre 2012

Jason Lytle - Dept. of Disappearance

Jason Lytle, Dept. of Disapperance,
Anti, 2012
Prima di internet c'erano i negozi di dischi. Ci sono ancora, ma solo prima di internet erano il luogo da cui attingevo per conoscere nuova musica, e una volta, quando ancora ero un ragazzino che non conosceva le potenzialità della rete o che semplicemente non aveva la banda larga, mi trovai in libera uscita in uno di questi a Londra. I nomi dei gruppi sugli scaffali erano diversi da quelli presenti in Italia, mai sentiti o a lungo invano cercati in patria e così approfittai della situazione acquistando senza indugiare tre dei dischi che mi avrebbero segnato per i successivi anni. Il bottino comprendeva uno scontatissimo a sole 5 sterline Yoshimi Battles the Pink Robots dei Flaming Lips, una raccolta di due vecchi LP, Tadpoles e Keynsham, della Bonzo Dog Band e infine l'allora inedito Sumday dei Grandaddy.
Era la prima volta che mi azzardavo all'acquisto di artisti mai ascoltati prima e devo riconoscere di aver avuto fortuna: ogni album apparteneva ad un mondo diverso, ognuno dei quali diventò immediatamente mio, permettendomi di approfondire il nascente interesse per la musica.
Li ascoltai a non finire, imparando a conoscerne ogni dettaglio e maturando grazie ad essi un gusto personale e indipendente. Nel giro di breve tempo entrarono tutti e tre nell'ancora ristretta cerchia degli artisti preferiti in cui finalmente adesso comparivano dei gruppi ancora in vita. Si può quindi comprendere il mio disappunto quando qualche anno dopo, nel 2006, venni a sapere che Just Like the Fambly Cat sarebbe stato l'ultima opera dei Grandaddy, che di fatto sanciva lo scioglimento del gruppo. L'album era imperniato da una certa nostalgia, come se volesse far intendere che la fine era inevitabile, e questa ne era la maestosa espressione.
Sapevo già da tempo che dietro il nome Grandaddy si nascondeva il genio del suo leader, Jason Lytle, ma scoprire che l'intero ultimo disco della band -e il meraviglioso EP precedente- fosse stato scritto e suonato (quasi) esclusivamente da lui mi sorprese: capii che il progetto era cambiato, ma la sostanza rimaneva la stessa.
Cominciai così ad aspettare l'ufficiale debutto solista di Jason Lytle, intanto crebbi. Quando Yours Truly, The Commuter uscì, ascoltai con piacere che insieme a me anche la musica di Jason Lytle aveva raggiunto una nuova forma, intima e delicata. La mia passione per i Grandaddy avrebbe continuato a crescere.

Ho aspettato prima di ascoltare Dept. of Disappearance, volevo il momento adatto, l'intimità di cui avevo bisogno per poter approfondire quella relazione musicale intrapresa più di un decennio fa. Lontano da casa, proprio come quella volta in Inghilterra, ma con la stessa musica nelle orecchie, anche se diversa. C'è una tristezza di fondo in queste melodie, una fragile malinconia che si respira dall'inizio alla fine, un senso di solitudine che mi si appiccica addosso, eppure mi viene da pensare a quanto sia bello tutto ciò. C'è una flebile voce a rassicurarmi di fronte al buio dell'inverno che sta per arrivare, e anche se gli arrangiamenti appaiono grossolani nella loro imprecisione, quasi a sottolineare la naturale semplicità dei brani, c'è una monumentalità che si staglia imponente di fronte a me, ma che potrebbe spezzarsi con un tocco tanto è fragile. E poi arrivano quei momenti in cui tutto si scioglie, e allora lascio andare un sospiro di sollievo, pensando che la musica sarà sempre al mio fianco, qualsiasi cosa succeda, qualunque, ci sarà sempre la sua atmosfera che mi riscalda, mi riempie e mi

intanto, i Grandaddy si sono riuniti.

Willow Wand Willow Wand by Jason Lytle on Grooveshark

sabato 1 dicembre 2012

Godspeed You! Black Emperor - Allelujah! Don't Bend! Ascend!

Godspeed You! Black Emperor,
Allelujah! Don't Bend! Ascend!
Constellation, 2012
Dopo l'euforia iniziale, in cui entusiasticamente si abbracciano a rotazione gli strumenti disponibili, e aver sperimentato ogni possibile capriccio amplificato, arriva il momento in cui ci si accorge che forse sarebbe stato meglio provare prima per bene qualche pezzo invece di fiondarsi in sala prove con l'illusione che suonare con altre persone sia altrettanto semplice del farlo da soli. Un paio di sessioni siffatte dovrebbero avermi insegnato che il gruppo ha bisogno di studiare, è necessario un affiatamento niente affatto scontato per poter realizzare qualcosa che valga, eppure mi è accaduto più volte di presentarmi in sala prove impreparato come il resto della ciurma, e il processo si ripete: esaurite le novità del luogo, ci si ritrova con il semplice interrogativo, "e ora?". Se si escludono i tentativi di istruirsi vicendevolmente riguardo un ipotetico brano da eseguire, a questo punto rimane l'alternativa dell'improvvisazione. Una volta mi successe qualcosa di strano. Mi trovavo alla chitarra ed eravamo finalmente approdati al dilemma: in tacito accordo scegliemmo la pericolosa via dell'improvvisazione. Incominciai a far risuonare delle note, lente e ripetute, sempre le stesse tre, mentre intorno a me si stava erigendo un muro sonoro che evidenziava la solennità del mantra che stavo eseguendo. Ero concentrato sulla mia parte, ma allo stesso tempo sentivo di appartenere ad un disegno più ampio che coinvolgeva tutti gli elementi, ognuno racchiuso nella voce del proprio strumento, che insieme andavano a formare un unico essere, dove nulla prevaleva ma si trovava al posto giusto. Riuscivo a sentire la voce del gruppo. 

Un'opera in quattro movimenti, dove il rumore si trasforma in suono, sublimandosi in sinfonia. Senza i limiti di tempo e significato tipici della canzone, la musica dei Godspeed You! Black Emperor cresce imponente, lasciando che siano i suoni a comunicarsi in tutta la propria essenza. I tempi si dilatano, i minuti scorrono mentre mi sento preda delle vibrazioni e delle scene che stanno dipingendo intorno a me. Schizzi di inquietudine, l'impressione che stia per accadere qualcosa, ancora non mi è dato di sapere della sua bontà, ma ne percepisco l'importanza. Lentamente, e solo dopo una preparazione maturata in lunghe sedute, il velo si scosta e mi viene mostrata l'accecante verità. Distolgo lo sguardo tanto brilla, ma ne sono attratto e allora ritorno a guardare, e come a premiare il mio coraggio, la musica mi pervade, accendendomi proprio come ciò che sto fissando, e sento il giallo che sprigiono.

Un disco monumentale, che, se inizialmente mi aveva lasciato indifferente intuendone comunque la mole, con l'avanzare degli ascolti mi accorgo di quanto sia profondo e gigantesco. Un'illuminazione, che coi mezzi relegati a quello che fastidiosamente viene detto classico, mette in luce il potere della musica, la sua espressività, la catarsi che ne deriva. Un atto d'amore, quello che ho sentito mentre i violini si lasciano trasportare su un tappeto di chitarre ossessive e il procedere trascinato dei ritmi, fino a raggiungere la tanto ambita sospensione, e poi di nuovo, ancora e ancora.
La voce del gruppo, qualche volta mi è successo di farne parte, e ad ascoltare i GY!BE avviene anche senza uno strumento.

Post-rock lo chiamano, ma in futuro lo si dovrà cercare sotto classica.

We Drift Like Worried Fire by Godspeed You! Black Emperor on Grooveshark