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Chromatics, Kill for Love, Italians Do It Better, 2012 |
L'avrei dovuto capire sin dall'introduzione. Aprire un disco con una cover è una pessima presentazione, tanto più se il pezzo in questione è fin troppo noto e la versione proposta non è carica come l'originale ma si limita a riproporne accordi e melodia, spogliandolo della calda densità che lo contraddistingueva per ammantarlo di una fredda e artificiale contrizione. Avrei dovuto averne la certezza quando i pezzi che seguivano quel poco riuscito preludio non aggiungevano nient'altro alle prime impressioni, anzi confermavano quella sensazione d'irritazione che provavo. Avrei dovuto, ma troppe recensioni entusiastiche mi hanno fatto desistere e ho permesso loro di farmi convincere che avrei dovuto dare un'ulteriore occasione ai Chromatics e al loro quarto album, perché in effetti un solo ascolto dei primi tre brani era troppo poco per accantonare il progetto, così ho proseguito, e poi, la copertina continua a piacermi e non mi dispiace vederla lì in alto a sinistra. Inoltre mi affascinava la possibilità di un intervento convintamente negativo.
Deciso ad andare fino in fondo ho ricominciato da capo l'ascolto. Ripercorrendo i primi tre brani l'irritazione si è trasformata in sorpresa: mi chiedevo come fosse possibile che questo fosse l'album di cui avevo visto parlare così tanto e bene. Bisogna sapere che prima di ascoltare un album cui voglio dedicarmi evito categoricamente la lettura di recensioni e interpretazioni di critica o ascoltatori, onde evitare qualsiasi influenza esterna alla mia immaginazione e al mio giudizio; non appena capisco quale sarà il successivo disco su cui concentrarmi, smetto immediatamente di ricercare informazioni al riguardo. Questo procedimento ha fatto sì che di alcuni futquo non conoscessi nemmeno il genere, e se talvolta ciò è stato all'origine di una gradita sorpresa, in questo caso si è rivelato una delusione.
xx, le due lettere che mi hanno attraversato la mente durante l'ascolto, e anche se gli americani Chromatics sono in giro da un bel po' di tempo prima dei giovani inglesi, alle mie orecchie il primato di quel suono gelido e distaccato resta agli xx, ed anche qui regna una ricercata sofferenza, un giovanilistico spleen annoiato e tenebroso voluto ad ogni costo, e la lentezza, gente, la lentezza. Al contrario degli xx, fenomeno comunque pop di facile commercializzazione, qui vi sono delle pretese d'appartenenza ad una élite, ma le lunghe suite di soporiferi suoni che cercano di rendere seria la tragicità di posa del gruppo cozzano contro gli squallidi vocoder da revival anni novanta che qua e là appaiano. Forse l'idea era quella di dare uno spessore a meccanismi tipici della musica "facile", ma rallentare i tempi non significa per forza intensificare le emozioni, ripetere di continuo il medesimo passaggio non rende il tema più incisivo.
Al di là di ogni considerazione resta sempre il piacere dell'ascolto, che purtroppo raramente ho provato grazie ai Chromatics, ritrovandomi anzi con l'amara nostalgia per il 1993 degli Ace of Base.
Ho provato a chiudere gli occhi, lasciarmi coinvolgere dalla musica, e mi sono ritrovato sprofondato in un'oscurissimo oceano, trascinato verso il basso, mentre il blu della superficie diventava sempre più nero e lontano. Cercavo di opporre resistenza, ma il mio corpo era attirato dall'abisso ignoto e spaventoso. Dimenarsi non serviva a nulla, perché ormai ogni possibilità di salvezza era svanita, e imperterrita la mia discesa procedeva, i miei polmoni si riempivano di acqua e di sale, e il giorno diventava notte, anche se sapevo che il sole era ancora alto sopra di me.
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