sabato 27 ottobre 2012

Tame Impala - Lonerism

Tame Impala, Lonerism,
Modular, 2012
Il concerto è l'incontro con l'artista. L'apice di una relazione, il momento in cui si concretizza quanto è racchiuso nei suoni, ricreandoli in un contesto estremamente intimo, diretto, rivolto all'ascoltatore, solo per lui, in quel preciso momento. Più di uno spettacolo, è l'esperienza fondamentale per cogliere appieno l'artista e l'interpretazione che dà alla sua opera, perché una volta nata questa potrebbe anche esistere senza lui, ma quando ti ritrovi davanti il creatore di quei suoni dare loro una veste inedita, sempre diversa, riesci ad andare al cuore della sua arte, a farti invadere dalla musica che ti circonda, presente e irripetibile. Alcune persone ce la mettono tutta per riuscire a dare eternità a quegli istanti, e allora ti distraggono con delle ingombranti macchine fotografiche, dando l'impressione di essere più interessati ad archiviare l'esperienza piuttosto che a viverla; altre invece non appena il ritmo comincia a farsi più frenetico si sentono giustificate ad alzare pugni e gomiti, dando finalmente senso alla loro impaziente attesa di salti e daichescattailpogo; altre ancora vedono nel concerto, soprattutto quello racchiuso nel formato festival, l'ennesima possibilità di socializzazione, corredata di birra e naturalmente amici.
Per quanto mi riguarda, concepisco il concerto come il mezzo principale di comunicazione tra me e i musicisti presenti sul palco, qualunque esso sia. La musica è il centro di questo dialogo prevalentemente unidirezionale, ma il mio apporto è fondamentale, gli artisti sono lì per me. Il luogo deve favorire questa connessione, permettendomi di concentrarmi appieno sulla creazione che mi circonda, per questa ragione amo i concerti nei teatri e nelle arene, un po' meno quelli nelle discoteche e negli stadi.
Non importa conoscere la musica che viene suonata, l'abilità di musicisti all'opera è anche quella di riuscire ad arrivare all'ascoltatore senza che questo li abbia mai ascoltati -mi è successo più volte di rimanere entusiasmato da "anonimi" gruppi spalla. Chiaramente se si affronta un concerto preparati, l'effetto può essere ancora più intenso, per questa ragione ho voluto conoscere i Tame Impala prima di andare ad ascoltarli dal vivo.

Suoni liquidi, che fluttuano, scorrono e si sciolgono. Distorsioni riverberi ritardi, una barriera sonora che si abbatte sulla mente, scaraventando onde di musica che rimbalzano per ogni angolo della testa, entrandoci confusamente per ricomporsi al suo interno. Canzoni semplicemente belle, esasperate e stravolte da un'idea, che le sublima attraverso suoni fluidi che avvolgono, e più stringono più ci si sente liberi. Spruzzi di colori accesi macchiano l'ascolto, rendendolo un variopinto collage di impressioni dai toni sorprendentemente opachi, perché sotto tanta euforia e freschezza si percepisce un certa inquietudine, che intensifica maggiormente la potenza del disco. Fare psichedelia in musica oggi è rischioso, ma Kevin Parker e i suoi Tame Impala ne hanno elaborata una propria, e dietro un visino innocente e una voce da bambino infastidito si nasconde un'uomo dalle idee chiare, con qualcosa da dire e la capacità di saperlo comunicare. Armato di innumerevoli artifici -in fase di montaggio palco mi ha stupito vedere comparire una sola tavola di effetti per la chitarra; mi ha rassicurato vederla affiancata da un'altra ancora più grande, per un totale di una ventina di pedali per un singolo strumento- il giovane Kevin Parker dà forma alle proprie immagini oniriche, e mi ipnotizza mentre la sua chitarra rincorre il proprio suono lasciandosi alterare da intricati meccanismi tecnologici.

Durante l'ascolto di Lonerism mi è successo una cosa strana. Mi trovavo immerso in una grigia palude, solo il mio capo sporgeva dal fango, riuscivo a respirare ma la sensazione che presto ne sarei stato inghiottito mi stava soffocando. Alzo la testa, sopra di me lontanissimi alberi stendono intricate liane che oscurano la luce del sole, facendomi credere per qualche istante che sia notte. Lentamente sento scivolarmi di dosso il liquame che fino a un attimo prima mi stava divorando, una strana forza mi attrae verso le fessure di luce che mi scrutano dall'alto. Una volta uscito dalla melma la mia ascesa non si ferma, adesso sono fuori, con tutto il mio corpo, ma continuo a salire, incessantemente, lentamente. Tendo un braccio verso l'alto e mi accorgo che anche i miei gesti sono rallentati. Una strana pace invade le mie azioni, la consapevolezza di raggiungere lo sbocco che mi libererà da questa prigione verde scura è una certezza, e non importa quanto ci metterò.
Ancora adesso, sto salendo.

Why Won't They Talk to Me? by Tame Impala on Grooveshark

venerdì 19 ottobre 2012

The Real Tuesday Weld - The Last Werewolf

The Real Tuesday Weld, The Last
Werewolf, 
Six Degrees, 2011
Mtv non trasmette più musica. Ormai quella grande M è oggi fine a se stessa, non più legata ad alcun usic sottointeso. C'è stato un tempo però in cui Mtv si era lanciata in un progetto ambizioso e misterioso, talmente oscuro da non lasciare comprendere agli spettatori che fosse di sua iniziativa. Flux.
Andavo ancora al liceo, nell'ozio pomeridiano comunque preferibile all'obbligo dello studio mi lasciavo prendere dalla pigra attività dello zapping televisivo, e mentre giravo a vuoto tra una trasmissione e l'altra mi sono trovato un giorno davanti ad un inedito canale che proponeva musica, ma diversa da quella che spesso mi infastidiva nella troppo commerciale Mtv - a quei tempi preferivo la più umile Viva-All music, più affine ai miei gusti di allora. La cosa particolare di Flux, l'inedito canale, era la sua totale assenza di presentatori e pubblicità: trasmetteva solamente video, uno dietro l'altro, di artisti di cui mai prima avevo sentito parlare e di cui cominciai immediatamente ad interessarmi. La chiamavano musica alternativa, e nella definizione rientrava tutto ciò che non trovava spazio nelle varie hitlist. Iniziai a trascorrere diversi momenti della giornata a conoscere nuova musica, abbinata ai video più improbabili e sperimentali, per me era un nuovo mondo -youtube non apparteneva ancora alle mie giornate. Ben presto mi accorsi che Flux trasmetteva blocchi di musica, una sessantina per mese, sempre in rotazione, così se non ero riuscito a segnarmi il nome del gruppo della canzone che mi piaceva -il titolo non compariva- avrei potuto farlo la volta seguente. Tra questi ci fu un video che mi entusiasmò particolarmente, un cartone animato in bianco e nero che faceva da sfondo ad una canzone uscita da un'altra dimensione, in cui le chitarre elettriche dai riff taglienti tipiche degli altri brani del canale erano sostituite da più pacati clarinetti e ossessivi coretti, una specie di dixieland che si appoggiava ad una drum machine. Quel gruppo divenne immediatamente mio.

The Real Tuesday Weld è il mio segreto.
Li ho scoperti ormai parecchi anni fa, ammesso che vederne un loro video in televisione possa renderli una mia scoperta, e sono diventati una mia costante musicale, uno di quei gruppi che seguo assiduamente, sperando un giorno di potere assistere a uno dei loro concerti fuori dal tempo, magari durante la proiezione di un cinema anni '40 o in una grande sala circondato da uomini in frac e donne dai lunghi strascichi in velluto seduti ai propri tavoli, o in un teatro, con gli occhi di bue illuminano tutti gli elementi della band mentre creano quel suono unico proveniente dal passato eppure così moderno.
Stephen Coates, l'anima del gruppo, crooner dei nostri giorni, musica delle immagini, la sua arte è così concreta, non stupisce quindi che un paio di album, tra cui l'ultimo, siano delle colonne sonore, non per film, ma per romanzi, scritti dall'amico d'infanzia Glen Duncan. Se però I, Lucifer, il primo progetto, risultava omogeneo nella sua malinconia e nei suoi suoni, con The Last Werewolf si spazia in svariati generi e umori, facendo prevalere un atteggiamento più spensierato e meno manierista. Nessun fruscìo di vinile in sottofondo, né sample charleston rubati a qualche registrazione anteguerra, ma una produzione pulita, senza sbavature e con diverse strizzate d'occhio a soluzioni più pop. Gli intermezzi rimangono, a sostegno di un collante che unisca le diverse scene raccontate, rendendole così contigue nonostante i grandi cambi di registro. La sua voce, sussurrata e fragile, compare e scompare, lascia spazio ad altri interpreti per poi tornare a riprendere le fila del disco. A struggenti valzer in solo pianoforte si alternano brani di un'energia inusuale al gruppo, e anche quando si tocca la sporca violenza del rock o l'illecita lussuria della techno, dopo la sorpresa e lo smarrimento iniziali si riesce a percorrere la strada che ci conduce all'intimità cui i Real Tuesday Weld mi hanno abituato a farmi cullare. E' allora un sollievo ritrovare quei dolci e lenti suoni appartenenti ad un mondo troppo buono per essere reale. Poesia circense.

giovedì 11 ottobre 2012

David Byrne & St. Vincent - Love This Giant

David Byrne & St. Vincent,
Love This Giant, 4AD, 2012
Che senso ha una recensione negli anni '00? Mentre si è ancora intenti a leggere l'intestazione - autore / genere / anno / casa discografica / durata - sullo schermo si è già caricata un'intera canzone tratta dal disco in questione; nel tempo che si spenderebbe a leggere delle parole che riassumono l'opera, si potrebbe ascoltare un estratto dell'album e crearsi una sommaria idea di ciò che ci si potrebbe attendere dal resto. In tutte i due i casi il giudizio che ne deriva sarebbe viziato da contingenze non poco rilevanti, nel primo caso dal recensore, nel secondo da qualche istante estrapolato dal contesto, ma perlomeno si ha un incontro diretto con l'artista, si potrebbe quindi concludere che l'ascolto sommario sia preferibile al tramite della recensione. In queste considerazioni non si tiene però conto della capacità del critico musicale, cultore esperto della materia e quindi più adatto a individuare ipotetici capolavori e ad allontanare i seducenti inganni del prodotto consumistico.
Sia l'uno che l'altro, direi. Magari prima si fa una scrematura attraverso la critica, evitando così di imbattersi in esperienze insipide, dopodiché si passa alla scelta personale, dovuta solitamente a ragioni minime - il nome del progetto, la copertina dell'album, l'associazione a qualcosa, l'istinto.. Infatti non basta il primo passaggio: troppi dischi sono considerati interessanti, troppe poche orecchie sono le nostre per dedicare un degno ascolto stereo ad ognuno di questi. Si da il caso che uno dei metodi più utilizzati per affrontare la seconda parte della scelta sia youtube: qui è facile rimbalzare da un'artista all'altro, spaziare tra generi più o meno affini, far attrarre la propria attenzione.

Non avevo intenzione di ascoltare David Byrne & St. Vincent per varie ragioni, comunque misere: il disco è frutto di una collaborazione, e raramente queste stimolano il mio interesse, soprattuto se uno degli artisti è a me ignoto; proprio in questi tempi ho deciso di continuare a coltivare i Talking Heads e anche se questo avrebbe potuto essere un incentivo ad ascoltare l'ultimo prodotto del loro leader, incredibilmente non lo era; la copertina del disco continua a non piacermi. Poi però sono capitato sul video di Who, e vuoi il bianco e nero, vuoi i fiati sbarazzini, fin dai primi istanti sono stato catturato. Gli artisti mi si sono presentati come se stessero rispondendo alle domande di Pina Bausch, mostrandosi nella loro eleganza e ironia, lasciando che la musica risplendesse di freschezza mentre si esibiscono in improbabili e trascinanti passi di (teatro)danza. Ho voluto immediatamente ascoltare anche il resto dell'album, forse dopo aver rivisto ancora un paio di volte il cortometraggio, permettendo così di inquinare la mia immaginazione, riempiendo la mia fantasia di immagini prefabbricate, per quanto belle. Il video è esteticamente impeccabile, e purtroppo questo ha fatto sì che mentre risuonavano nella mia testa le note di Who vedevo intorno a me la gente camminare in maniera sinuosa -e in bianco e nero- proprio come avevo visto fare a David Byrne e Anne Clark mentre assimilavo il brano le prime volte.

La prima cosa che salta all'orecchio mentre si ascolta Love this Giant è il ruolo insolito dei fiati. Tutto l'album, tutto!, sembra nato dall'esigenza di sfogare la potenza di trombe sassofoni corni tube su cui ogni struttura armonica si regge. Una batteria elettronica minimale, precisa e perfetta, accompagna le costruzioni, poco altro. Seppure sia David Byrne sia Anne Clark siano prevalentemente due chitarristi oltre che cantanti, le sei corde sembra quasi di non udirle, ad eccezione di alcuni interventi dal marchio tipico Byrne o St. Vincent (poi ho conosciuto anche lei, e in questo periodo oltre ai Talking Heads sono ritornati anche i Polyphonic Spree..!). Ogni canzone gode dell'appoggio incondizionato degli ottoni, e ci si ritrova a cantare perfino le parti a loro destinate. L'arrangiamento diventa così imprescindibile, non si riesce nemmeno a concepire una forma diversa da quella fornita, ogni brano ha bisogno di tutti quei fiati, senza di essi l'intero album perderebbe la sua essenza.

Mi era già successo di assistere a qualcosa di simile quando andai al concerto dei Cesarians, gruppo che alcuni definirebbero punk o perfino gothic. Mi aveva attirato la composizione particolare della band: tra gli strumenti nessuna traccia di chitarra o basso, al loro posto tromba, sassofono e corno, e l'effetto era sorprendente. Quest'album mi ha ridonato lo stesso stupore, ricordandomi quanto i fiati possano essere incisivi, liberati dal loro usuale ruolo di secondo piano. L'accostamento con una produzione dal sapore elettronico poi.. gente, che disco!

Who by David Byrne & St. Vincent on Grooveshark

mercoledì 3 ottobre 2012

Matthew Dear - Beams

Matthew Dear, Beams,
Ghostly International, 2012
La musica racconta il tempo, coglie lo spirito di un'epoca, lo elabora e lo rivela in tutte le sue forze e debolezze. Si potrebbe definire l'arte come una riflessione di un periodo. Si potrebbe, ma non lo faccio.
Ammiro le diaboliche costruzioni bachiane, mi sorprende la semplicità mozartiana impressa nella complessità, sono impressionato dall'epicità wagneriana (..) o ancora mi disinibisce lo sconfinamento nell'illecito jazzistico, mi stimola l'istinto rivoluzionario della pentatonica (..) eppure io sono altro.
Sparsa in tutta la gamma musicale riesco ad ascoltare ogni sfumatura della mia persona, ma difficilmente vi avverto la sua essenza. Il mio tempo ha bisogno del suo strumento.

Ho scoperto l'elettronica da troppo poco tempo per potermi professare un amante del genere, ma sono completamente stravolto dalla sua potenza espressiva, dalla sua capacità di riuscire a entrare nel mio corpo e sputarci fuori quello che vivo ogni giorno. Immerso in un mondo troppo complesso da comprendere, mi sento disorientato dalle indicazioni dei navigatori satellitari, invisibile di fronte alle innumerevoli parole che i cartelloni pubblicitari mi rivolgono, sorrisi forzati che mi seguono ovunque io mi diriga, mentre sulla faccia della gente leggo il disagio di doversi adeguare a qualcosa che non appartiene loro.

Il cemento è la mia natura, mi rifugio dentro a tunnel dai binari infiniti per raggiungere la mia meta, sempre troppo lontana, sempre troppo in ritardo. Le persone mi corrono davanti, e come una macchina fotografica con un'apertura d'obiettivo eccessivamente prolungata, vedo la loro angoscia lasciare la traccia dei profili alle loro spalle. Mi muovo in mezzo a quelle scie disumane e salgo sul mio vagone. La luce del sole non è mai entrata dove sono adesso, il grigio è il colore predominante, delle aste gialle sbiadite simulano il tentativo di nascondere l'opacità del luogo. Guardo i presenti intorno a me scendere e salire, ma sono sempre gli stessi.
Il ritmo scandisce la base del pezzo, un breve loop, freddo e meccanico su cui riesco a entrare subito in sintonia, dopo poche battute mi trovo già immerso in profondità, sono oltre lo spazio che mi circonda, da qui riesco a capire. Lascio che la musica completi il suo percorso, muovendosi attraverso passaggi che non sono consapevole di desiderare, le realizzazioni precedono le mie intenzioni, ogni suono è al posto giusto, essenziale. La forma è quella della canzone, stravolta ora dall'alienazione e l'indifferenza tecnologica, ora dall'esigenza di raccontare il contemporaneo, col risultato di una veste inedita, incredibilmente incisiva, vera.
Osservo i vicini, facce stanche e sguardi spenti, annoiati e annichiliti mentre guardano nel vuoto o fingono di interessarsi all'indice azionario, sempre troppo negativo.
Vedo una nuvola di fumo calare dal soffitto che cancella dalla mia visuale le monotone espressioni delle persone, le rende vaghe, imprecise, le deforma fino a farle diventare delle macchie indefinite, che si aggirano per la carrozza, fino a mischiarsi, confluendo in un'esplosione dai colori pallidi e smorti. Assisto alla scena immobile, rassicurato dalla voce profonda e sintetizzata di Matthew Dear che scandisce alle mie orecchie un canto primordiale, un rito vudu, una preghiera, o comunque un mezzo che mi preservi.
Dal mio tempo.

Do The Right Thing by Matthew Dear on Grooveshark