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Daniel Rossen, Silent Hour / Golden Mile, Warp Record, 2012 |
Sono un ascoltatore di dischi. Quando mi dedico alla musica, se non suono, comincio dalla prima traccia e se devo interrompermi per un qualsiasi indesiderato motivo riprendo non appena possibile da dove ho lasciato. Rispetto le scalette volute dagli artisti, almeno fino a quando non conosco degnamente l'album, dopodiché mi concedo la funzione random o quella più personale di una playlist, mischiando raramente tra loro gli lp, perché sono più di una convenzione. Ogni disco, o quasi, è concepito come un pezzo unico da gustare integralmente, ogni album ha un sapore personale, una storia che comincia dal primo pezzo e si conclude con l'ultimo seguito assai spesso da bonus track, regali un tempo inaspettati ma oggi esageratamente desiderati soprattutto nelle riproposte a discapito della compattezza del suono dell'insieme. Mi è difficile ascoltare un singolo brano, mi richiede un tempo mediamente troppo breve per entrare nel giusto stato d'animo, il risultato è che seppure esistono dei pezzi favoriti, questi si portano dietro i loro compagni nel momento in cui decido di assaporarli per un'ennesima volta. La mia venerazione per il formato musicale lungo mi porta naturalmente a disprezzare quei pezzacci riempi posto inseriti con l'unico fine di ottenere uno zoppicante raggiungimento della durata minima affinché il prodotto possa considerarsi album e con il conseguente danneggiamento di pezzi veramente validi, espediente comunque troppo rischioso da adottare nel circuito di "musica indipendente" vista la maggiore attenzione dedicata ad essa dai suoi ascoltatori e dato lo scarso passaggio di singoli pezzi in radio e televisione, che potrebbero oscurare i brani più deboli dello stesso album.
Un EP è un invito, un assaggio di quello che potrebbe essere un lavoro superiore, più complesso e più completo. Un ibrido, tra canzone e disco, una forma che io conosco molto poco ma che non ho esitato un istante ad affrontare quando ho scoperto del debutto di Daniel Rossen, una delle voci e chitarra di Grizzly Bear e Department of Eagles. I richiami ai suoi due gruppi sono molteplici, talvolta sembra perfino di ascoltare dei passaggi di uno o dell'altro gruppo, e non perché le tracce suonano banali o già sentite, ma perché la composizione di Daniel Rossen è particolare, inconfondibile, come il timbro del suo canto, tagliente e belatamente deciso. Gli arrangiamenti appaiono qui meno sfarzosi rispetto agli altri lavori, le numerose chitarre mostrano un approccio più spontaneo e istintivo, ma le melodie restano sempre spigolosamente attiranti. La gamma di emozioni è egregiamente colorata, passando da momenti tranquilli e carezzevoli a episodi energici, muovendosi tra sentieri ora introspettivi ora spensierati, sfociando infine in meravigliosi ritornelli dal rapido e sempreverde effetto.
Avrebbe potuto gonfiarlo, infilare qua e là stralci di canzoni strappate dalle incisioni che ogni artista si porta dietro, eppure Daniel Rossen non ha voluto farlo, nonostante la consistenza dell'album fosse già presente in questi 23 minuti di registrazione, e gli sono grato per aver lasciato la sua opera essenziale ma comunque intensa. Forse ha voluto solo provare a mettere fuori la testa dai suoi due gruppi, umilmente, vedendo come il resto del mondo avrebbe reagito, prima di presentarsi con un vero e proprio debutto. In attesa del nuovo album dei Grizzly Bear per cui questi brani erano stati inizialmente composti, mi godo ripetutamente l'invito di Daniel.
Meno male che ci sono le recinzioni di Andrea.
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